Al nome Michel Gondry salto sulla sedia. Autore del soggetto e regista di “The eternal sunshine of the spotless mind”, sceneggiato da Charlie Kauffman, il regista non portava in sala un’opera dal 2015 (Microbo & Gasolina).
Arriva al Biografilmfest di Bologna con The book of solutions, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2023. Il protagonista, un giovane regista che scappa dai produttori che non colgono la sua espressività artistica, egregiamente interpretato da Pierre Niney, è l’alter-ego di Gondry, ora sessantenne, con tutte le sue fragilità, manie, desideri e geniali trovate. Un film nel film, un artista maturo nel corpo e nell’energia di uno giovane, che dà vita ad opere che non vuole vedere se non ad un passo dalla fine, che compone musica improvvisando con un’orchestra di provincia, che vuole realizzare un documentario su una formica (sempre la stessa) e diventa sindaco suo malgrado. Attorniato da figure femminili e materne, perseguitato da un produttore che vede come un demone, l’Otto e mezzo di Gondry scatena empatia e risate, riflessioni profonde sulla vita che appare un gioco senza fine.
Incontro Gondry in un faccia a faccia in inglese, gli dico subito “spero di non parlare con accento francese perché è quello che mi capita senza volerlo”, mi mette subito a mio agio dicendomi “non ti preoccupare, è osmosi, nel caso, capirò meglio”.
Parlare con Michel Gondry è incontrare pezzi dei suoi protagonisti, le domande sarebbero tante, il tempo è tiranno.
In The book of solutions, il protagonista sembra essere l’”EGO” del regista, ma racconta come, nel lavoro creativo del cinema, che è estremamente collettivo, sia spesso necessario “negoziare”. Quanto è arduo per un artista stare in questa continua “negoziazione”?
Capisco cosa intendi, ma siccome è un film molto autobiografico, e non mi fa stare bene pensare di avere un grande ego, anche se magari lo ho…obietto sull’uso di questa parola! (ride, ndr). Preferisco parlare di “resistenza” che il regista deve compiere per difendere le proprie idee. Essendo un lavoro che nasce dal regista ma poi è collettivo, tutti si sentono in diritto di dire “così non funzionerà”. Il regista deve continuamente difendersi, per questo smette di ascoltare gli altri. Magari in passato lo ha fatto troppo, ed ora vuole solo decidere, ed essere seguito come una guida. Ma non è facile, perché le persone vogliono dire la propria e non riescono a seguire ciecamente, affidarsi totalmente. Quello che racconto è il bisogno di un artista di scegliere da solo se una cosa funziona o no, perché quando hai un’idea, ci sarà sempre qualcuno che ha qualcosa da obiettare. Magari perché questa idea è diversa dal loro modo di pensare usualmente, li mette in discussione, gli pone delle questioni, gli chiede di accogliere una sfida. Se tu come artista ascolti tutti, non sarai libero di scegliere se quella che sostieni è o no una buona idea. Quindi ad un certo punto dici, ok, non ascolto. Quando realizzi la tua idea, e funziona, allora qualcuno agisce come se fosse stata sua e dice, ‘ok, funziona, ma potremmo fare così’, a quel punto puoi valutare, magari migliora ancora. Questo il senso della collaborazione. Bisogna sempre saper scegliere chi ascoltare e quando.
Il protagonista non vuole guardare il suo film finchè non sarà finito. Il giudizio su se stessi e la propria opera artistica è un “grande mostro” o può comunque essere un incentivo?
Io scelgo di raccontare la mia emotività. Ho fatto così tanti sforzi, ho attraversato cosi tanto dolore e crisi per alcuni miei lavori, che avevo poi reazioni troppo emotive, ogni volta piangevo. La questione per me è che più guardi, meno senti. Rischi di perdere il tuo fuoco, il punto di vista. Per questo lui (il protagonista, ndr), ed io, guardiamo la prima scena milioni di volte, e l’ultima solo alla fine, vogliamo vedere il film solo quando è “quasi” finito, per restare nelle emozioni che vogliamo trasmettere e provocare.
Il protagonista del film crea, compone la musica senza conoscerla, chiedendo all’orchestra di “seguire” i suoi movimenti. Quanto è importante la conoscenza e capacità tecnica per creare qualcosa di “vivo e vibrante”?
Non è vero che la tecnica lavora a scapito della spontaneità e dell’espressività artistica. Una buona base tecnica, sapere come funzionano le cose, avere una solida capacità, è necessario e dà forza all’opera. In questo caso il regista chiede all’orchestra di stare in ascolto del suo linguaggio, di fidarsi di lui, di seguirlo come una guida. Così, tutti insieme, creano una melodia capace di trasmettere emozioni. Il mio protagonista ha solo proposto un modo diverso di entrare in comunicazione. Le emozioni sono arrivate di conseguenza all’ascolto. E’ una metafora.
Nel film il protagonista rifiuta gli psicofarmaci che normalmente prende, per curare i suoi squilibri. Crede che l’arte possa aiutare a superare lo “stigma” nei confronti dei problemi psichiatrici (che in Italia, è ancora molto diffuso…)?
L’artista ha una grande fortuna. Se per esempio io “non sto così bene mentalmente” ma non faccio film o opere artistiche, divento un problema per gli altri. Siccome scrivo e giro film, dipingo, etc allora “compenso” e le persone attorno a me non vedono più in primo piano il problema, perché spostano attenzione sulla mia produzione artistica, che peraltro mi permette di vivere, di guadagnare, di condividerne i frutti con altre persone. Le persone quindi fanno più fatica a criticare il mio stato mentale. Certo qualcuno lo fa, dovresti cambiare terapia, sospenderla, riprenderla etc, ma non possono dire che io faccia cose “sbagliate” perché comunque sono produttivo.
Nel mio caso, essendo libero dalla stigma, parlo tranquillamente del fatto che l’equilibrio chimico mi aiuta perché posso sembrare rallentato nella modalità di parlare, ma in realtà la mia mente riesce a creare molte più idee. Le persone credono che gli squilibri siano qualcosa che sparisce solo parlando con un terapeuta, con un percorso interiore, ma spesso sono chimici. Si possono curare con le medicine, come qualsiasi altra malattia. Non è mai tutto o bianco o nero, ci sono vantaggi e svantaggi.
Tuttavia, non è più così originale avere problemi mentali, tutti ne hanno qualcuno.
Sono assolutamente d’accordo con lui egli dico: “Si ma molti non lo dicono” .
Intervista di Ylenia Politano