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‘Nuclear Nomads’. Sui nomadi nucleari francesi

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Alla 26ma edizione del Festival CinemAmbiente di Torino, di cui Taxidrivers è mediapartner, arriva il tedesco Nuclear Nomads di Kilian Armando Friedrich e Tizian Stromp Zargari. Si tratta di un documentario dolceamaro che sequenzia le vite di coloro che lavorano per gli impianti nucleari in Francia. I “nomadi del nucleare” vivono accampati in roulotte per facilitare gli spostamenti tra un impianto e l’altro. Spesso lontani dalle loro famiglie, cercano di guadagnare il più possibile nel minor tempo a disposizione. Su di loro incombe la minaccia dell’accumulo delle radiazioni.

Presentata in anteprima mondiale durante il Perspektive Deutsches Kino della Berlinale, la pellicola è prodotta da Hochschule für Fernsehen e Film München e venduta a livello internazionale da Rise and Shine.

Nuclear Nomads, di cosa parla

Una roulotte è parcheggiata di fronte a una centrale nucleare. Immagini reali in un ambiente dal sapore post-apocalittico. In pochi minuti il simbolo di una vacanza on the road si infrange, perché si tratta della vita vera dei “nomadi nucleari” in Francia. Vivono in case mobili, 7 metri quadri condivisi spesso con figli e partner. Tutt’intorno le auto sono coperte di teli riflettenti per diminuire gli effetti delle radiazioni.

Il personale non qualificato in Francia guadagna circa 1200 euro al mese; lavorando nell’industria nucleare può ambire al doppio o al triplo. Un incentivante sistema a premi, legato fortemente alla mobilità territoriale, spinge perlopiù i giovani ad intraprandere questa strada. Il lavoro di ispezione e pulizia delle centrali è usurante e alienante, inoltre espone i lavoratori a rischi seri per la loro salute.
Di giorno si dorme, non sussistono attività ricreative e regna la solitudine. L’unica metrica da tenere sotto controllo è il numero di millisievert a cui si è stati esposti durante un determinato lasso di tempo. “A volte ricevo la mia quota mensile in una sola mattinata”, racconta uno degli operai.

Il profitto o la vita è il dilemma etico tra le pieghe del documentario. I lavoratori del nucleare sperano di raggiungere velocemente il denaro massimo previsto su base annuale per smettere di lavorare.

Non sussiste struttura narrativa. I reattori si ergono monumentali dinanzi alla cinepresa. Il cielo è grigio, l’inquinamento opacizza gli esterni. Una prospettiva dal di dentro si congiunge con una riflessione politica – e universale – sussurrata. Tenuto conto di quanto mostrato nella pellicola, come produrremo energia nel futuro? Un soggetto coraggioso come tesi di laurea degli studenti della scuola di cinema di Monaco Kilian Armando Friedrich e Tizian Stromp Zargari.

“Il risultato è una completa solitudine”: la parola ai registi

I titoli di coda recitano “il film è dedicato alle persone che devolvono la loro vita alle centrali elettriche affinché il resto di noi possa avere l’elettricità”. Non è necessario alcuno slogan: il film incarna appieno la coincidenza tra personale e politico.

Friedrich e Zargari sono studenti e coinquilini. Friedrich è cresciuto vicino alla centrale nucleare di Cattenom, infatti è sua l’idea di girare un film sugli “stili di vita dei nomadi nucleari”.

In un approccio a specchio, l’unico modo per avvicinarsi intimamente alle vite dei soggetti raccontati era farsi quegli stessi soggetti. Solo in parte, è ovvio, dato che non girano all’interno delle centrali. I due registi noleggiano un camper, si muovono insieme ai protagonisti del racconto, dormono di giorno invece che di notte. Fianco a fianco, i cineasti conquistano la fiducia dei nomadi, bussano alle loro porte, si fermano più a lungo. Anche il direttore della fotografia, Jacob Maria Kohl, naufraga insieme a loro durante i tre mesi di riprese.

Friedrich afferma:

Vivere in un camper significa vivere nella propria camera da letto. Consentire a qualcuno di entrare nel tuo camper significa permettergli di entrare nel tuo spazio più intimo.

Si beve tanto, si fuma moltissimo. Si potrebbe pescare, ma stanchezza e stress inibiscono qualunque slancio. Lo spettatore non sa nulla del vissuto dei lavoratori, della loro cifra identitaria. Un coacervo di volti, mani e andatura lenta richiamano la disumanizzazione operante in quei territori, dove si consuma oscurità e poesia.

Continua Friedrich:

Nessuno vuole essere lì. È una completa destabilizzazione della vita privata quella che vediamo lì. Il risultato è una completa solitudine […]. Il film non vuole essere una polemica sullo sfruttamento dei lavoratori. È più intimo di così. C’è un ovvio messaggio politico, ma espresso in termini intimi e poetici.

Serve un punto di vista sul racconto, “una sensibilità”

I due cineasti hanno le idee chiare. Il film va visto, prima che raccontato. E la pista di lancio della Berlinale è un riconoscimento notevole per una pellicola realizzata in maniera del tutto indipendente.

Non basta porre la cinepresa davanti al reale per pareggiarlo adeguatamente. Serve un punto di vista sul racconto, “una sensibilità”, per dirla alla maniera di Virginia Woolf. Bisogna spingersi dove si teme di andare, dove può ferire, dove non è scontato che si torni. Un lavorio di sensi che passa per i sentimenti.

A partire dal ribaltamento tra giorno e notte. La vita raccontata nel film – e quella vissuta per realizzarlo – si svolge in assenza di colore, il contraccolpo è soltanto il chiarore di queste costruzioni post-moderne sullo sfondo. Si percepisce il vento che soffia, l’elettricità che gira. La partitura musicale acuisce il grigio dell’atmosfera esteriore e interiore. Le radiazioni sono il grande invisibile che non molla la presa di lavoratori, registi e audience. Sembra uno scenario post-vita, eppure i nomadi nucleari hanno paura. La cinepresa mostra innanzitutto che esistono, ma anche che amano, desiderano, sperano. In fila indiana, sono nel grande complesso degli abitanti delle roulette come una sorta di comunità che condivide la medesima condizione ed immagina probabilmente lo stesso futuro.

L’amore è l’ultimo baluardo e la corda che aiuta a risalire la china.  “Volevamo mostrarli come esseri umani che cercano di amarsi l’un l’altro”, afferma Friedrich. “Abbiamo cercato di essere sempre guidati dalle loro emozioni… e di far sentire al pubblico cosa significa vivere così”.

Sono Diletta e qui puoi trovare altri miei articoli

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