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‘Miss Agata’ contro il buio dei pregiudizi e della solitudine

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Prima della recensione

Miss Agata è un cortometraggio del 2022 diretto da Anna Elena Pepe insieme a Sebastian Maulucci. La sceneggiatura è stata scritta dalla stessa autrice ferrarese in collaborazione con Nicola Salerno.

Prodotto da Tabit Films e Ladybug Crossmedia in collaborazione con il Comune di Ferrara e la Film Commission Emilia Romagna, il film si è aggiudicato il Premio Tixter 2020 al Murmat Film Festival per la miglior sceneggiatura-film in sviluppo. Selezionato, inoltre, al Terra di Siena Film Festival e al Romafrica Film Festival, Miss Agata è stato presentato ufficialmente all’Italian Pavilion del Festival di Cannes lo scorso 23 maggio.

Nel cast del film troviamo la stessa Pepe nei panni della protagonista, affiancata da due attori di grande esperienza, ossia Chiara Sani e Andrea Bosca, e da un emergente ma versato Yahya Ceesay.

Miss Agata La sinossi ufficiale

Agata (Anna Elena Pepe) ha solo trent’anni e sembra all’apparenza una giovane donna un po’ buffa e maldestra.

In realtà, nasconde un trauma che non riesce a superare. Alex (Andrea Bosca), infatti, l’ex fidanzato violento, continua a tormentarla nella totale indifferenza delle istituzioni, costringendola a cambiare città per sfuggirgli.

La donna decide così di lasciare la sua casa in Piemonte e trasferirsi nella vecchia abitazione della nonna a Ferrara. Inizia a lavorare in un call center che non le offre alcuna prospettiva. Triste e frustrata per la difficile situazione che vive, prova a cercare conforto nella sua amica di sempre, Giulia (Chiara Sani), nella quale però non trova una spalla su cui poggiarsi.

Ogni giorno Agata viene letteralmente “bombardata” dai notiziari sui femminicidi e sulla crescente presenza della mafia nigeriana in città. Notizie che, giorno dopo giorno, accrescono sempre di più la sua ansia )sopravvive ingurgitando un numero spropositato di pillole omeopatiche).

Quando Alex riesce a scovarla nella nuova città dove si sentiva ormai al sicuro, Agata crolla definitivamente. Durante un attacco di panico viene salvata da Nabil (Yahya Ceesay), un richiedente asilo gambiano con cui instaura un tenero rapporto di amicizia.

La donna, tuttavia, come altre vittime di violenza continua, ha sviluppato un Disturbo Post Traumatico Da Stress (PTSD) che le impedisce di riconoscere la realtà e ragionare lucidamente. Così, non riesce a vedere in Nabil il suo principe azzurro, ma l’occasione per risolvere tutti i suoi problemi…

La “vittima imperfetta”

Nell’essere umano ordinario lo spirito è una massa di preconcetti ereditati e acquisiti, tanto più pericolosi perché il loro possessore non ne ha consapevolezza.

Un problema lungi dall’essere risolto, specialmente in Italia, è quello della vittimizzazione secondaria: definita anche “post-crime victimization”, è la pratica di far ricadere addosso alla vittima di un reato la colpa di ciò che ha subito. Tale orrenda abitudine può riguardare le istituzioni pubbliche e giudiziarie, quanto la moralità comune, quella tristemente abbracciata dalla società.

Come può aiutarci a intendere la suddetta citazione, gli esseri umani necessitano per costituzione biologica di precise costanti, di riferimenti che si vorrebbero inamovibili poiché rassicuranti. Tuttavia, ora è difficile sì stare al passo con la mutevolezza culturale a cui siamo tutti esposti, ma è anche un errore grossolano ignorarla del tutto pensando che le cose stiano sempre bene al loro posto.

Vittimizzare chi ha subito un reato è frutto di questa incapacità degli esseri umani di oggi di abbracciare un cambiamento necessario, non facile da accettare perché scardinerebbe secoli di credo civile e religioso.

Agata è proprio quella persona che attraverso la sua tenera goffaggine mette in luce le numerose complicanze a cui sono sottoposte queste “vittime imperfette” dalla società, una società estranea e indifferente, fin troppo ordinaria, che è insita non solo narrativamente nel personaggio negativissimo di Giulia, la quale ne incarna tutti i disvalori, ma anche in noi spettatori. Siamo costretti a confrontarci con una vicenda che mette sotto i riflettori il nostro pensiero critico, impegnato su temi attualissimi e urgentissimi.

L’occhio della cinepresa puntata su Agata è apparentemente estraneo, distaccato, superficiale. Se non fosse per l’innata capacità chiarificatrice del cinema, che in questo specifico caso ci rende esplicito il trauma della protagonista grazie all’iniziale sequenza onirica, riusciremmo davvero a carpire le sue gravose e impellenti difficoltà? Riusciremmo davvero a immedesimarci nei suoi panni mettendo da parte i nostri preconcetti?

Quello che ci viene mostrato della protagonista ha tutta l’aria e tutte le caratteristiche di un percorso riabilitativo, dove cure e supporti adeguati, oltreché delicati, diventano necessari affinché l’individuo possa tornare a una condizione stabile e ottimale. La strada è tanto più lunga e in salita quanto più noi tardiamo a fornire a queste persone gli strumenti di ripresa necessari.

Capire “Roma” per “Toma”, come si suol dire, e dunque prendere le parti di Giulia, è immensamente più facile e immediato di quanto non ci sembri, perché resta più sicuro affidarci a ciò che è stato culturalmente già assodato. Ed è proprio questo l’errore fatale, che rischia di farci trascurare tutto quello che ancora non è stato integrato nel nostro sistema di valori, scartandolo a priori.

Eccolo che ritorna: il mito del buon selvaggio

Sarebbe un ulteriore errore escludere dal discorso la densa e significativa figura di Nabil. Il personaggio interpretato da Yahya Ceesay è un’anima pura, almeno in Italia, poiché le nostre usanze retrive non l’hanno potuto corrompere o influenzare. Ciò che lo contraddistingue è la marginalità, condizione che lo accomuna perfettamente ad Agata, incapace invece di re-immettersi con naturalezza nel meccanismo sociale. Il loro è dunque un incontro felice poiché possono capire perfettamente la reciproca solitudine, intrecciando vicende diverse e lontane con un’incredibile spontaneità.

Tuttavia, se da un lato ci fa piacere vedere come sia effettivamente possibile un’integrazione multiculturale, che faccia leva proprio su criteri comuni per avvicinare storie lontane, dall’altro una simile soluzione narrativa deve farci riflettere sulla nostra già citata inadeguatezza; una fissità che rischia di sclerotizzarsi sempre di più, finendo per trasformarci nei soggetti meno adatti a portare avanti una narrazione comune e felice della specie umana.

Hans-Georg Gadamer, filosofo e uno dei massimi esponenti dell’ermeneutica, diceva, semplificando, che i pregiudizi non sono negativi in toto, ma che sono anzi gli strumenti necessari affinché si possa avviare un’indagine costruttiva del reale, volta a garantire una generosa e prospera autoconservazione nel nome di ideali sempre più puri. Noi auspichiamo che questo piccolo lavoro, assieme ai tanti altri che cercano di affrontare criticamente questi temi, possa a suo modo contribuire a farci pensare, restituendoci quella genuinità critica che da sempre ci contraddistingue.

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