
Anno: 2011
Durata: 99′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Islanda/Danimarca
Regia: Rύnar Rύnarsonn
Primo lungometraggio del concorso internazionale in cui mi imbatto, opera prima di Rύnar Rύnarsonn, fattosi notare per i suoi cortometraggi Last Farm (2006), 2Birds (2008), Anna (2009), sia agli Oscar che a Cannes. Il giovane regista sceglie un soggetto ‘importante’ con cui confrontarsi: Volcano (Eldfjall, 2011) (presente a Cannes ’64 nella Quinzaine des réalisateurs) è una storia totalmente umana nella sua crudezza e verità.
L’instabilità e la labilità del contatto tra terra, mare e fuoco, proprio della morfologia dell’Islanda, è spazio-nonspazio-limbo perfetto nel quale incuneare la lezione finale impartita dall’esistenza al vecchio Hannes (Theódór Júlíusson). Ultrasessantenne, all’imbarco dell’ultimo pezzo di vita, socialmente spalancatosi davanti al suo orizzonte con l’arrivo della pensione. Custode di una scuola, uomo di vecchio stampo, severo, aspro, egoista, superbamente inconsapevole della sua vera essenza di essere umano arido, incapace di amare. Hannes accusa il colpo di una sconfitta vera (la pensione), con una vergogna interiore profondissima: il suo amor proprio cieco e stolto tramuta in disprezzo e isolamento il rapporto con la propria famiglia, in primis sua moglie, l’unica realmente capace di amarlo pazientemente. La piccola barca ereditata dal padre è il solo rifugio, insieme al mare, nel quale Hannes trova pace: sullo sfondo, nell’acqua, sovrasta come un monito e insieme un richiamo, l’isola vulcanica dovuta abbandonare 30 anni fa, cacciati lui e la sua giovane famiglia da una feroce eruzione. Nel mare una falla alla barca spezza d’un tratto tutta quella forza: Hannes ascolta non visto il giudizio dei suoi figli e ne rimane stordito, come se per la prima volta avesse compreso cosa lui sia per gli altri e come abbia trattato la donna che gli è stata accanto più di chiunque altro. Il mutamento verso Anna appare possibile, e proprio quando il vecchio sta cominciando ad imparare, arriva la vita. Anna gli viene tolta nel modo più penoso, invano le cure e la dedizione che l’uomo ci mette serviranno a tenerla insieme a lui. È troppo tardi. Le tracce per una piena maturazione sia visiva che narrativa ci sono tutte.
Rύnar Rύnarsonn tiene troppo strette a sé le briglie della pellicola, percorrendo un sentiero visivo-strutturale-emotivo già tracciato da altri. Dall’uso della fotografia, alle inquadrature pseudo-asettiche, alle atmosfere dominate da sguardi e non detti, dalla musica soprattutto, grande caduta in un’artificiosità che si respira, si avverte, palpabile. Le emozioni, la sostanza, tutto appare ancora trattenuto, non fluisce in uno stile davvero personale, identitario. Non scalda, non scuote realmente. Il dolore non si vede. Imparerà a camminare da solo, Rύnar Rύnarsonn, me lo auguro per lui e per la nuova cinematografia in embrione che porta.
Maria Cera