Peso morto è un film di genere documentario diretto da Francesco Del Grosso, che l’ha scritto insieme a Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. La produzione è di Black Rock Film in collaborazione con Errorigiudiziari.com. Il lancio dell’opera è avvenuto il 18 settembre 2022 al festival Visioni dal Mondo di Milano.
Insignito di numerosi riconoscimenti tra cui Best Feature Documentary al Fox International Film Festival e Miglior documentario “ItaliaDoc” al 29º edizione del Premio Libero Bizzarri – Rassegna del documentario, è stato recentemente proiettato e premiato nella sezione fuori concorso del Prato Film Festival.
Ventuno lunghissimi anni in carcere. Tanti ne sono trascorsi prima che Angelo Massaro venisse riconosciuto innocente per un delitto mai commesso. Quello che lo ha visto protagonista è uno degli errori giudiziari più clamorosi nella storia dell’Italia repubblicana. Un’odissea umana che rivive attraverso un viaggio fisico ed emozionale nei luoghi che hanno fatto da cornice alla sua ingiusta detenzione, al fianco di figure chiave della sua incredibile vicenda (sinossi ufficiale).
Come un cerchio che si chiude sull’ignoto, la vita ancora da vivere.
Peso morto, la vicenda
Il mio dramma ebbe inizio il 10 ottobre del 1995. Mia moglie andó ad aprire e si presentarono i carabinieri della compagnia di Martina Franca e dissero: “Massaro, deve venire con noi, è in arresto”. L’accusa era di aver ucciso un mio amico fraterno.
Questo è il modo in cui Angelo Massaro apre il racconto della sua disgrazia. Il film però inizia dalla fine: l’uomo nuota nel mare blu, l’inquadratura si allarga con lentezza e leggiadria fino a simulare l’estensione della libertà. La moglie assiste e riprende la scena con il cellulare.
Serve riavvolgere il nastro. Siamo in Puglia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Taranto conta i morti ammazzati in seno alle faide criminali. L’inadeguatezza della classe politica e l’incosistenza delle Forze dell’ordine e della Magistratura dell’epoca fanno il resto. Oltre 100 vittime di errore giudiziario in pochi anni, il che significa una moltitudine di innocenti ingiustamente carcerati.
Quando la ricostruzione di un fatto storico mette al muro come erronea la valutazione del quadro probatorio che aveva condotto ad una condanna, si verifica quello che in giurisprudenza è definito errore giudiziario. L’evento passibile di sentenza e l’accertamento processuale della colpevolezza perdono coesione. La sentenza dunque può essere ribaltata, ma le conseguenze sono irreparabili.
Angelo Massaro ha una moglie e due figli piccoli. Rincorre il sogno di costruire una casa sul terreno di famiglia. Cerca di rigare dritto. Ha 29 anni quando scompare un suo carissimo amico, di cui viene rinvenuta l’auto carbonizzata. È al telefono con la moglie nel momento in cui pronuncia in dialetto tarantino la frase “Tengo stu muers”, alludendo a un macchinario ingombrante attaccato alla sua vettura. Si tratta di un’attrezzatura adatta a spostare tufi e che l’avrebbe aiutato a realizzare il desiderio di abitare in campagna. Uno scambio di consonanti e per gli investigatori il citato “muers” diventa “muert”, morto appunto, confermando il trasporto del cadavere di Fersurella, l’amico scomparso.
La necessità di raccontare questa storia e la riflessione sulla giustizia
L’epopea comincia come una partita a carte persa in partenza, fatta di snodi processuali approssimativi, autoreferenziali e sbagliati.
La sentenza è fissata: 24 anni di reclusione. Il carcere, la rabbia traboccante, la sofferenza dei giusti, il film entra nella storia del singolo e si irradia man mano verso i cari – il prolungamento della condanna -, fino a toccare temi universali in una stratificazione di registri che ammanta l’audience.
Dapprima la trama. Una storia come questa non necessita di altro che essere detta. E di qualcuno che l’ascolti. La forma della testimonianza è l’unico modo per sottrarre una briciola di umanità alla compagine del tempo che passa, all’irrevocabilità della pena.
Il racconto di Massaro è un ponte che chiama il pubblico a partecipare: le barriere fisiche sono soppiantate da una vicinanza emotiva senza scudi.
Poi c’è la riflessione sulla giustizia, non indotta ma vissuta dal punto di vista del protagonista. Massaro esplora un percorso di disincanto dalle istituzioni. La camionetta che lo trasporta dal carcere di Taranto a quello di Catanzaro è lurida, il corpo copre a malapena lo spazio occupabile, il ferro è ovunque e lo trattiene mani e piedi. Eppure qualcuno prima o poi lo ascolta. Le figure che gravitano intorno alla nuova casa circondariale – la direttrice, lo psicoterapeuta, il sacerdote – contribuiscono a trasformare quella miscredenza in un atto rinnovato di resistenza. Conoscere è la risposta al magma di disillusione: è così che diventa uno studente di giurisprudenza.
L’occhio del regista di Peso Morto
Lo scrittore Milan Kundera definisce come “saggezza sovrapersonale” la capacità dei romanzieri di sparire dietro la propria opera. Questo spiega “come mai i grandi romanzi siano sempre un po’ più intelligenti dei loro autori”.
Il lavoro di Francesco Del Grosso schiude questo concetto. Un passo indietro, l’occhio vigile e sensibile sul soggetto del racconto, l’eleganza e la compostezza del passo. I connotati stilistici del film pongono al centro della scena l’unica presenza necessaria, la ricerca di una verità pronunciata a sostegno di quella incarnata, ribadita costantemente da Massaro.
Dalle parole del regista:
I film non si fanno mai da soli, “Peso morto” è il risultato della ricerca di un’umanità, non è frutto soltanto del mio lavoro ma di quello di tutta la squadra. Tutti mi hanno dato una mano a conoscere il mondo di Angelo, a cominciare da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi. Non mi piace entrare pesantemente nella vita delle persone, ma preferisco che inizino a fidarsi di me, come è successo con Angelo e Patrizia, per poi dare forma alla materia. Ho cercato di rendere chiara una storia che non lo era stata a causa di una serie di gravi errori giudiziari.
Il peso morto
Quando Massaro viene proclamato innocente non è piu soltanto lui a pronunciare quella parola. Il percorso di liberazione è finalmente al giro di boa. Il peso morto è la controparte di ogni atto di resistenza, l’eterno ritorno dell’ingiustizia a rallentare il salto in avanti. Nel lungometraggio coincide con il macchinario ingombrante dell’inizio di tutto, il borsone pieno di documenti legali, il mondo com’era che resiste al mondo com’è, la Taranto che Massaro ha lasciato, la versione precedente di se stesso.
Fuori sembra esserci il pericolo, eppure c’è tutto così che lo ha salvato e continua a farlo.
Pensiamo sempre che quando uno corre, scappa da qualcosa, ma magari corre verso qualcosa. La fretta di recuperare il tempo perduto, di ricreare le relazioni primarie, di bersi la vita mancata. Di respirare. Angelo Massaro non parla del futuro alla cinepresa: discreti ci si congeda dal racconto.
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