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Cannes

‘Inshallah a Boy’: meglio non nascere femmine in certi Paesi, parola di regista maschio

La storia di una vedova che lotta per mantenere la casa dove vive con la figlia.

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Inshallah a boy

La condizione delle donne non è facile a nessuna latitudine, come sappiamo dalle violenze fisiche e psicologiche che interessano le cronache, ma di certo ci sono luoghi del mondo nei quali il patriarcato è vivo e vegeto, e cerca di annientare ogni forma di autostima ed autonomia delle donne, relegando ancora oggi tutte le decisioni che le riguardano ai familiari maschi, dal marito financo ai fratelli, cognati e zii, specie in tutte le questioni relative alle eredità, quasi mai assegnate alle donne – come ad esempio, per le vedove, le case in cui esse vivono coi figli – spesso sulla base di leggi retrive e ingiuste.

Tale triste realtà, ben rappresentata da tanto cinema d’autore iraniano (basti pensare ai film di Asghar Farhadi, Shirin Neshat, Jafar Panahi, Ida Panahandeh, solo per citarne alcuni) è stata portata all’attenzione quest’anno a Cannes dal bel film  Inshallah a boy (Inshallah Walad), di Amjad Al Rasheed – regista giordano di origine palestinese, classe 1985 – in competizione alla Semaine de la Critique, sezione parallela del Festival di Cannes.

Il film è stato presentato nel 2022 al Marrakech International Film Festival, dove ha ricevuto uno dei tre Atlas Post-Production Awards, ed alla 79a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha ottenuto quattro premi al Final Cut in Venice Workshop, tra cui il Premio della Giuria. Il film sarà distribuito in Italia da  Satine Film.

Presentato a Cannes nei primissimi giorni del Festival, Inshallah a boy è stato accolto con grande favore da pubblico e critica, vincendo, alla Semaine 2023 il Prix Fondation Gan per il miglior distributore francese, Pyramide Films.

Inshallah a boy: speriamo che sia femmina

La giovane Nawal (una bravissima e intensa Mouna Hawa), infermiera a domicilio e madre di una bambina, vive nei sobborghi di Amman e sta cercando di avere un secondo figlio ma il marito non sta bene e un giorno, improvvisamente, muore fra le sue braccia. La vita di Nawal inizia ad essere sconvolta: la donna non può neppure concedersi di piangere il marito poiché alla disgrazia ‘naturale’ si aggiunge l’infida crudeltà del cognato Rifqi (nel ruolo Haitham Ibrahem Omari), il quale, con fare ipocrita – ben sapendo come stanno le cose – viene in visita a chiederle di rifondere presunti prestiti, pretendendo di avere come risarcimento il furgone del marito e, poco dopo, appena seppellito il fratello, avanzando pretese anche sulla casa, a meno che Nawal – che pure ha contribuito a pagare l’abitazione ed i lavori di ristrutturazione – non esibisca un contratto a suo nome, unico mezzo per rivendicarne il possesso. Neppure il fratello della donna, pavido e poco combattivo, riesce a difendere i diritti della sorella.

Ma Nawal si ribella e assolda un avvocato, cercando di contrastare il furto di ciò che le appartiene come legittima eredità: è pronta a combattere per i suoi diritti di vedova, per assicurare alla figlia un tetto e la stabilità affettiva. Inizia così una vera e propria lotta di resistenza, che la spinge anche a mentire, fingendo una nuova gravidanza (evento che sospenderebbe tutto). Nel frattempo un’altra donna – ironia del destino – la figlia dei ricchi signori dove lavora, le chiede aiuto per porre fine ad una gravidanza indesiderata, ricorrendo a metodi illegali.

L’attenzione del regista è sempre posizionata sull’impossibilità per le donne di scegliere in autonomia, sul loro corpo e sul loro destino, e sui terribili condizionamenti sociali cui debbono soggiacere. Il tempo passa ed è sempre più difficile sostenere la menzogna della gravidanza: come farà Nawal ad uscire dall’impasse, ad assicurarsi la sua legittima eredità e a proteggere il futuro di sua figlia? Servirà un deus ex-machina: nei film si può inventare una soluzione che risolva le cose ma nella vita reale non sempre è possibile.

Leggi sull’eredità e condizione delle donne

Il film è costruito intorno alla prigione sociale che avviluppa le donne come Nawal in alcuni Paesi, e le costringe a risposarsi rapidamente o a perdere tutto, l’onore, la casa, i figli: tanto peggio se una vedova (come capita un giorno alla protagonista) viene accompagnata a casa da un uomo (anche solo un conoscente o un collega di lavoro): tale ‘comportamento improprio’ può dar adito anche alla perdita dei figli per indegnità.

“La legge sull’eredità di cui parlo nel film esiste in Giordania – racconta il regista – e nella maggior parte dei paesi arabi, e viene applicato ancora oggi: se una donna perde il marito e non ha figli, allora parte dell’eredità va alla sua famiglia adottiva. La storia del film, infatti, è stata fortemente ispirata a quella di una componente della mia famiglia che si è trovata in una situazione simile. Ma per me, il film non riguarda solo la società giordana: si interessa alle disuguaglianze e alle violenze subite dalle donne nel mondo.

Oggi ho evidenziato questa legge, ma potrei fare un film in Europa dove parlerò della disparità salariale. Su scala globale, esistono molte leggi e regole per far sentire le donne inferiori, ed è questa ingiustizia che voglio sottolineare. Nel film volevo sollevare questioni morali. Come intorno a questa legge: se anche abbiamo il diritto di prendere parte dell’eredità, dobbiamo farlo? Per me è una domanda più grande del film stesso che spero accompagni gli spettatori non appena escono dalla sala. So che il personaggio di Nawal sarà sicuramente giudicato duramente, soprattutto nel mio paese, ma vorrei, durante il lungometraggio, provare a metterci nei suoi panni.”

Eroine e madri coraggio dei Paesi Arabi

Il personaggio di Nawal, con la sua intelligenza, dignità e forza d’animo rappresenta anche la speranza e la ribellione pacifica verso un sistema ingiusto e patriarcale, che sottomette le donne escludendole dal circuito economico-produttivo, e le schiaccia in una situazione di povertà morale e materiale, affinché dipendano in tutto dall’uomo e non possiedano nulla.

C’è da sperare in Dio, sembra concludere il regista con una nota di tragica ironia che emerge dal titolo del film, che i nascituri siano soprattutto maschi, per evitare traversie tanto dolorose quanto ingiuste a tutte le donne, madri, bambine, vedove. Ma in realtà l’intento è di forte denuncia a sostegno delle donne,

“L’idea principale del film era quella di parlare di una donna che rifiuta una situazione considerata normale nel luogo dove vive – prosegue il regista – Nawal, la protagonista è una sopravvissuta. Scopre di non aver paura di affrontare una situazione alla quale non era preparata e di saper dire di no. In gran parte il personaggio è ispirato a mia madre: ho prestato a Nawal la sua forza e le sue qualità che la rendono così speciale.

Ma il personaggio è ispirato anche a donne che ho incontrato attraverso il mio lavoro, Realizzando alcuni video istituzionali, per ONG e organizzazioni in Giordania, che volevano evidenziare alcuni profili di donne giordane, che avevano qualcosa in comune: quasi tutte sono state vittime di abusi da parte di figure maschili del loro entourage, ma hanno anche avuto la forza di dire di no e dimostrare di poter fare altrettanto o anche meglio degli uomini, a patto che venisse data loro  una possibilità. Non volevo giudicare i miei personaggi, so che nessuno è puramente cattivo o buono: sono tutti umani sopra ogni altra cosa e molto dipende dalle circostanze, dal loro grado di esposizione a certi condizionamenti e dalla loro educazione.”

  • Anno: 2023
  • Durata: 116'
  • Distribuzione: Satine film
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Giordania/Francia /Arabia Saudita/Qatar
  • Regia: Amjad Al Rasheed

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