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Interviews

Pippo Mezzapesa e il suo ‘Ti mangio il cuore’. Intervista al regista

Il regista del film che ha segnato l'esordio al cinema di Elodie racconta, in occasione del Prato Film Festival 2023, la costruzione di una storia di contrasti, di famiglie e di faide

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In occasione del Prato Film Festival 2023, che ha scelto Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa come primo film fuori concorso, abbiamo fatto qualche domanda al regista. Il film, prodotto da Indigo Film, Rai Cinema è distribuito da 01 Distribution.

Pippo Mezzapesa e il bianco e nero

La prima domanda è forse quella più scontata perché ti sarà già stata fatta, ma credo sia d’obbligo, guardando Ti mangio il cuore, chiederti perché hai scelto il bianco e nero. Una scelta che può essere vista come qualcosa che permette di non dare un giudizio e non prendere più di tanto posizione (con il colore si sarebbe andato probabilmente a connotare una famiglia in maniera maggiore rispetto a un’altra o un personaggio piuttosto che un altro), ma anche come quello che può essere l’unico modo per raccontare una storia del genere che, pur mostrando elementi tipici della contemporaneità, come cellulari e auto, si adatta bene a qualsiasi periodo storico. Ha anche dei richiami con certo cinema western e thriller. Come hai deciso di usare il bianco e nero?

Questa storia è nata in bianco e nero. Non ho mai pensato di girarla a colori e ho anche lottato per girarla in bianco e nero perché è chiaro che non è semplice come scelta ed è stato anche molto coraggioso da parte della produzione e della distribuzione assecondare questa mia decisione.

L’ho voluto girare in bianco e nero per vari motivi ai quali sono arrivato dopo perché sono convinto che le scelte partano sempre istintivamente.

pippo mezzapesa

Questa è una storia di profondissimi e stridenti contrasti. Già nel titolo c’è questo contrasto: promessa di morte e dichiarazione d’amore. Questo contrasto l’ho voluto rendere con i due colori più contrastanti che potevano esserci: il bianco e il nero, appunto.

Dopo questa, che è la motivazione più immediata e più semplice, ce n’è una legata alla sensazione che volevo dare al film. Il film racconta una faida, una ciclicità, la difficile possibilità di sradicare un meccanismo e il male. Quindi, per restituire questo ripetersi continuo della faida nei decenni, ho pensato di togliere il colore e trattare gli anni ’60 all’inizio del film come i giorni nostri. Tutto questo come a voler dire che non c’è o che comunque è molto complessa una via d’uscita. Quello che ho usato è un bianco e nero che dà patina e ci astrae da un’individuazione precisa di un contesto e di un ambito cronologico e che allo stesso tempo ci rende tutte queste vite, queste esistenze un po’ più asfittiche.

Titolo e ispirazioni

Questa domanda dà lo spunto per altre due domande. La prima è legata al discorso della storia alla quale si ispira il film. Si tratta di una storia vera, trasposta in un romanzo. Ma è facile riscontrare all’interno del film alcuni riferimenti a cinema, letteratura, cultura in generale. Tra i tanti si possono citare, per esempio, Romeo e Giulietta. Come hai lavorato in questo senso? Ti sei basato solo sulla storia vera e sulle testimonianze oppure hai preso qualcosa anche da altri contesti?

La storia è una storia che è inevitabilmente archetipica: bene e male, amore proibito, sete di vendetta, morte, fango da cui non si riesce a emergere. Non c’è bisogno di ispirarsi a qualcosa per raccontare queste storie: è nel racconto stesso che ci sono tutte le storie che abbiamo letto e visto nel corso degli anni e che hanno formato il nostro bagaglio culturale, di spettatori, lettori.

pippo mezzapesa

Di solito anche con il racconto ho un approccio molto istintivo. Se mi piace una cosa la devo raccontare, devo cercare di emozionarmi raccontandola, solo così sono convinto che si possa cercare di emozionare il pubblico. Quindi non vado forzatamente a cercare delle ispirazioni, ma inevitabilmente queste ispirazioni ci sono.

L’altra domanda è sul titolo, al quale hai già fatto riferimento sottolineandone la doppia valenza. Oltre a questo e al fatto che mangiare il cuore si possa leggere sia come cuore di innamorato sia come la sete di vendetta e di potere in grado di divorare a tal punto da mangiare il cuore, ho notato l’attenzione a uccidere i personaggi in un modo ben preciso, mentre in un caso viene chiesto di non toccare la faccia. Si può ricondurre anche a questo aspetto il titolo?

Ti mangio il cuore intanto è il titolo del romanzo da cui è tratto il film, quindi l’ispirazione l’hanno avuta anche gli autori del romanzo e nasce dalle frasi che emergevano dalle intercettazioni telefoniche che sia io sia gli autori del romanzo abbiamo ascoltato e studiato più volte. In questa società profondamente arcaica e legata alla terra, la voracità e il mangiarsi qualcosa sono alla base. Usano tutti queste terminologie molto figurate ed esplicite: è anche una società molto cruda, aggressiva, violenta in tutti i codici.

La scelta della musica

Una domanda anche sui suoni e sulle canzoni che hai utilizzato. A tal proposito salta sicuramente all’occhio una scena in particolare, quella dove inserisci la canzone Dragostea Din tei che è associata a una sequenza cruda e violenta. Quasi come l’iconica scena di Parasite nella quale Bong Joon-ho utilizza In ginocchio da te di Gianni Morandi. Come hai lavorato nella scelta delle canzoni?

Mi ha sempre affascinato questa cosa nel racconto di storie del genere crime. Provengo da una realtà che conosce queste dinamiche e ho sempre trovato che in queste storie non venissero ritratti i personaggi in maniera realistica. Perché in realtà non viene dato così tanto peso a quello che viene fatto.

Vediamo sempre dei criminali tenebrosi che danno tanto peso alle parole che dicono e che danno un senso filosofico alla morte. In realtà loro fanno della morte il loro pane quotidiano. Spesso vivono le loro brevi vite con grandissima leggerezza e inconsapevolezza perché mettono tutto in conto. Quindi anche prima di eventi terribili, magari ci sono dei sorrisi, dei momenti non così pregni di pathos, di pesantezza, non così preparatori.

Io ho cercato di ricreare tutto questo anche attraverso l’utilizzo di quella canzone, cioè precedere quel momento con un dialogo sul nulla, un dialogo quotidiano, con una canzone che loro potrebbero ascoltare tranquillamente in macchina e che rende ancora più tragico, ancora più di rottura quel momento lì.

Poi c’è da dire che è un film di contrasti, nel trattamento audio, visivo, delle musiche diegetiche e non diegetiche, c’è sempre l’intento di restituire questo chiaro scuro.

La scenografia

Oltre alla musica ha un ruolo importante anche la scenografia, spesso usata in maniera simbolica. Ci sono enormi spazi, dove spesso avvengono gli omicidi, ma anche piccoli spazi, come le strade cittadine che i personaggi percorrono correndo e cercando di nascondersi.

C’è una grande parte del film che è girata in un’unica location: questa masseria che è un fortino in cui si asserragliano e in cui ci si prepara alla guerra. Anche nella scelta della location c’è questo alternare la voglia di aprire gli orizzonti e liberarsi da tutto questo con l’incapacità, il tornare a essere sempre fagocitati da questa chiusura, come ammantati dal velo delle desolate nella processione.

Questa è una storia di due ragazzi che potrebbero avere un’altra vita se non si trovassero in un contesto da cui è difficile liberarsi. Anche con le location ho cercato di dare un’alternanza tra orizzonti, saline, apertura visiva e momenti di grandissima chiusura.

L’intuizione di Pippo Mezzapesa

Non può mancare, naturalmente, una domanda sulla scelta di Elodie come protagonista del film. Come hai avuto l’intuizione di puntare su un’artista che non aveva mai recitato prima di questo film e che comunque ha superato abbondantemente la prova?

Credo che il cast sia composto molto bene in questo film. Abbiamo lavorato tanto con la direttrice del casting, Teresa Monaco, proprio per comporre un film di famiglie e nuclei familiari. Bisognava comporre un mosaico molto articolato in cui attori presi dal luogo fossero affiancati a grandi attori, capaci di mimetizzarsi.

E poi è un film che ha come protagonista una donna, un personaggio femminile molto complesso, molto forte, che ha una grande spavalderia all’inizio e una bellezza prorompente, ma anche delle profonde fragilità. Discutendo con il produttore quando si pensava a chi potesse interpretare questo ruolo e potesse, al tempo stesso, dare una forza di promozione mediatica al film (che ne aveva bisogno e ne aveva la possibilità), ho deciso di allargare gli orizzonti e ho individuato in Elodie, anche lì istintivamente, quella donna che potesse avere questo carattere così sfaccettato: è stata un’intuizione. Dopo l’idea, però, ci vuole la concretezza. Abbiamo provato e fin da subito ho capito che si poteva fare un grande lavoro anche perché lei ha avuto l’umiltà di mettersi a disposizione.

Progetti futuri?

Sto ultimando la serie sul delitto di Avetrana.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

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