Prima della recensione
Takbir è un cortometraggio del 2022, scritto e diretto da Jordi Calvet.
Prodotto dalla Único y Singular Films, il film è stato girato interamente a Madrid ed è attualmente in programma alla sesta edizione del Festival del cinema iberoamericano di Firenze-Entre dos mundo.
Dopo aver trionfato a numerosi festival del cinema, Takbir si è inoltre aggiudicato a Cannes il premio per la miglior sceneggiatura originale in un cortometraggio.
Nel cast figurano come protagonisti Ivan Hidalgo, Pedro Casablanc, Xenia Tostado e Octavi Pujades.
Sinossi
Uno scrittore si presenta alla stazione di polizia di Madrid per denunciare di essere diventato involontariamente l’ideologo dietro i più recenti attacchi terroristici dell’ISIS nel mondo.
Potere e comunicazione
Un lavoro che apparentemente scardina le attualissime pretese di esasperare il linguaggio scenotecnico e filmico, dimostrando che con la semplicità si può ottenere un risultato sintatticamente pulito ed efficace: Takbir, espressione con cui la lingua araba indica la tristemente nota formula “Allahu Akbar”, ci invita a focalizzarci con apprensione sulle odierne mutazioni culturali e su come le istituzioni societarie cerchino di mantenere l’ordine semplicemente mancando di tatto e ascolto.
La narrazione è semplice, basilare e ruota attorno a tre figure, tre “tipi”: un ispettore repressivo e non incline al dialogo (Pedro Casablanc), un’agente di polizia pronta ad accogliere qualsiasi richiesta e ad ascoltare la più improbabile denuncia (Xenia Tostado), un informatico che si diletta nella scrittura e che finisce per generare storie e idee capaci di capovolgere la realtà (Ivan Hidalgo).
Il cambiamento sa essere repentino, imprevedibile e pieno di incertezze; tuttavia, una società che non lo accoglie, che non si evolve e dunque non matura, è destinata alla sterilità, alla morte. Il potere vorrebbe sempre bastare a se stesso e non dover mai scendere a patti con nessuno, perciò finisce inevitabilmente per reprimere qualsiasi cosa lo possa mettere in discussione; altrimenti non sarebbe neanche più un vero potere, giusto? No, non funziona così: adattarsi al cambiamento e saperne cogliere gli aspetti più vitali è l’arma vincente per un’ideologia flessibile e duratura, capace di rivolgersi a tanti e di far sì che nulla cambi realmente, poiché tutto resterebbe effettivamente funzionale come già era.
Ma al nostro ispettore, simbolo di una società conservatrice e patriarcale affatto distante dalle persone più queer e autodeterminatesi, la questione sembrerebbe non importare affatto. La sua lunga esperienza e il suo carattere arrogantemente inarrestabile vorrebbero che i ruoli venissero sempre rispettati; tuttavia non potrà mai comprimere l’esplosività di un mondo sempre più libero dalle catene dei preconcetti e ipercomunicativo, dove i media scansano di gran lunga le pubbliche istituzioni e ne annichiliscono l’affidabilità, diventando la vera casa di chi non sa più dove sbattere la testa, anche per una semplice denuncia.
Fortunatamente le istituzioni sanno resistere a se stesse, introducendo al loro interno anche menti che vogliono ascoltare e fare propri questi numerosi e improvvisi mutamenti culturali (qui rappresentata dalla docile agente di polizia), che cercano dunque di rinnovare e rielaborare precisi standards valoriali. La lotta tra le due facce della stessa medaglia è intestina, ardua e più dura di quanto non sembri: apparentemente, da quel che il regista ci sta dicendo, si desume che in Spagna le vecchie guardie sono dure a morire, nonostante il loro pensionamento sia alle porte…
In fin dei conti, oltre a quanto già asserito, ciò che qui diventa centrale è il rapporto conflittuale e nocivo tra potere costituito e mass media: come già accennato, oggi sono i social, i mezzi di comunicazione ipertestuale a garantire un circolo incontrollabile di idee e di possibilità di dialogo. La grande speranza che si potrebbe riporre in tali dinamiche comunicative, sempre più aperte, si trasforma però in forte dubbio nel momento in cui questi stessi strumenti di massa finiscono per essere usati impropriamente, alimentando narrazioni fittizie e ingannevoli che rovinano soltanto la loro reputazione, rivelandone un volto oscuro e pericolosissimo capace di generare il panico (una parola che viene inquadrata con molta chiarezza nel corto).
La comunicazione è dunque il centro di tutto: dialogo e ascolto, nozioni tanto basilari quanto la sceneggiatura e la regia di Calvet. Incamerando nei nostri cervelli queste strategie, oggi sicuramente irrinunciabili, si può giungere all’elaborazione di regole che aiutino la società ad autodeterminarsi e ad affidarsi a delle istituzioni solide, che sappiano mantenere l’ordine con l’uso di filtri culturali permeabili, ossia selettivi all’occorrenza, ma mai repressivi. Solo così si può prevenire il caos che potrebbe scaturire da una gestione inetta e orgogliosa del repentino e costante cambiamento culturale.