Dopo il passaggio a Cannes – primo film di finzione congolese a partecipare alla Croisette – Omen (Augure), opera d’esordio del belga-congolese Baloji Tshiani, è stato presentato al 41esimo Torino Film Festival, nella sezione Crazies.
Il Film è al Cinema dal 18 Aprile con I Wonder Pictures.
Augure – Ritorno alle origini il Trailer
Ambientato a Lubumbashi, città della Repubblica Democratica del Congo, il film porta lo spettatore a osservare, da un punto di vista privilegiato, un universo noto a pochi.
Tra superstizioni, credenze, religione, pregiudizi e risentimenti, Omen immerge completamente dentro la storia, sviluppata in tre capitoli – ciascuno dei quali dedicato a un personaggio, le cui vicende si intrecciano con quelle degli altri.
Ottime e convincenti le prove di tutti gli interpreti, da Marc Zinga a Lucie Debay, da Eliane Umuhire a Yves-Marina Gnahoua.
Omen (Augure) | La trama del film
Koffi (Zinga) vive in Belgio con la moglie Alice (Debay), incinta di due gemelli. Sebbene i due si amino e siano in procinto di metter su famiglia insieme, Koffi appare turbato da alcuni pensieri. Il giovane uomo, infatti, ha deciso di tornare nella città natale, in Congo, per portare la dote ai suoi genitori.
Ma il rapporto con loro, in particolar modo con la madre, sembra deteriorato, senza margine di recupero. C’entra il fatto che, molti anni prima, Koffi ha lasciato la sua casa e i suoi cari, per iniziare una nuova vita lontano da tutto e tutti. Considerato un traditore e un codardo, tenta di ristabilire un dialogo, nonostante le evidenti difficoltà.
Non sto cercando di capire.
Durante una cena, però, accade un “incidente” che segna per sempre la sua permanenza lì. Seguiranno una serie di eventi alquanto sconvolgenti, soprattutto agli occhi di Alice, costretta ad assistere inerme.
omen augure
Tra realismo magico e documentarismo
Omen – il cui titolo internazionale è Augure – fotografa bene uno spaccato quale è quello congolese, concentrandosi su aspetti legati al realismo magico e alle usanze che affondano le radici in un lontano passato. La distanza e le differenze tra due modi di approcciarsi alla vita si fanno palpabili.
La regia sfiora il documentarismo, rimanendo ancorata a una narrazione classica che permette di affezionarsi ai protagonisti. Le loro azioni, per quanto discutibili, sono la risposta a ciò che la vita gli pone dinanzi e che, in alcuni casi, hanno interiorizzato, forse senza neanche rendersene conto.
Oltre a Koffi, fanno la loro comparsa – e possiedono un proprio capitolo intestato – anche Paco (Marcel Otete Kabeya) e T’shala (Umuhire). Il primo appartiene a una banda, se così si può dire, di ragazzini, che indossano tutù fucsia e bianchi e sono in lotta con un gruppo rivale. La seconda è la sorella di Koffi e, come lui, ha voluto allontanarsi dalla famiglia, cercando la sua strada da un’altra parte.
Niente è cambiato qui.
Registicamente parlando, Baloji sa esattamente cosa filmare e come farlo per dare il (suo) senso al racconto. Chiaro quanto ne sia toccato in prima persona, essendo lui stesso di origini congolesi. Con uno sguardo affascinato e lucido, il cineasta si addentra nei meandri di una realtà, al tempo stesso, cruda e poetica.
Le immagini in apertura, con un deserto che impedisce la vista e avvolge nelle sue spire di sabbia, suggeriscono bene quella che sarà l’atmosfera caratterizzante la narrazione. A contestualizzare ancor di più, la scelta di ambientarla durante i giorni della Pasqua. Un’ultima lode alla splendida partitura musicale.
*Sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.