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‘Clock’ la recensione dell’ horror psicologico
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2 anni agoon
Clock è il nuovo horror psicologico approdato su Disney Plus il 29 aprile, scritto e diretto da Alexis Jacknow, nota per aver contribuito alla realizzazione di American Horror Story. Prodotto da 20th Digital Studios, il film vede come produttori esecutivi Jenna Cavelle, David Worthen Brooks e Arbi Pedrossian.
Ricopre il ruolo da protagonista la bella e seducente Dianna Agron (Ella Patel), qui nei panni di una donna di successo e alla soglia dei quaranta che dovrà fronteggiare l’assenza di istinto materno in un’escalation di dramma. L’attrice statunitense è conosciuta al pubblico prevalentemente per il ruolo di Quinn Fabray in Glee.
A completare il cast Melora Hardin, la Jan Levinson di The Office valsole due Screen Actors Guild Awards negli anni 2006-2007, Saul Rubinek recentemente nella serie Hunters e Jay Ali, qui coprotagonista nelle vesti del marito di Ella.
Clock, la trama
Ella Patel (Dianna Agron) è una donna ebrea. L’incipit la vede felicemente sposata con Aidan Patel (Jay Ali) e indaffarata per il lavoro di interior designer. Pur essendo vicina ai quaranta, non vuole avere figli. Famiglia e amici le chiedono insistentemente perché non ha desiderio di maternità. I dubbi la assalgono, tutto intorno a lei pare andare in una direzione diversa dalla sua volontà.
Dopo un controllo di routine al seno, Ella decide di partecipare ad uno studio clinico sperimentale, che si mostra piu pericoloso di quanto pensasse. Le conseguenze fisiche e psicologiche del trattamento avranno conseguenze inesorabili per la sua vita.
L’appartenenza all’horror psicologico
La narrativa horror sta avanzando spedita nel panorama dei nuovi lavori cinematografici. Nonostante il rischio di diventare inflazionato, il genere consente ancora di stressare i temi affrontati generando nello spettatore una forte immedesimazione con i personaggi. Indipendemente dal netto rimando alla psicologia, si definiscono psicologici gli horror capaci di indurre in chi guarda l’esperienza di disagio, paura o in generale di vulnerabilità emotiva.
Clock si inserisce appieno nella scia degli ultimi horror di discreto successo del sottogenere, come Run di Aneesh Chaganty o The Turning di Floria Sigismondi per citarne alcuni. Peraltro diretti da donne. All’appartenenza alla categoria si aggiungono una tensione tipica dei thriller contemporanei e una tematica tra le più discusse di oggi, e il prodotto risulta confenzionato correttamente per farsi guardare.
Dianna Agron è longilinea, seducente e crede di avere una vita perfetta. All’inizio le inquadrature e l’uso della luce seguono questa consapevolezza interiore della protagonista, mostrandone il volto disteso e le ambientazioni colorate. Man mano che le pressioni esercitate da chi le è intorno scavano dentro di lei, l’atmosfera si fa asfittica, cupa e domina il bianco, ossia l’assenza di colore.
Lo spettatore esperisce a specchio questa trasformazione interiore ed esteriore di Ella in una riproduzione sensoriale – mente e corpo – di quel crescendo messo in scena sullo schermo.
Le intenzioni della regista
Non è un vero problema non voler essere madre, eppure la scrittura insiste sulla radice biologica di questa volontà, rendendola in sostanza meno volontaria e più necessaria. Il grande dilemma è cosi rappresentato. L’orologio richiamato nel titolo è il simbolo principale intorno al quale ruota il film. Il suo ticchettio indica l’inesorabilità del passare del tempo, ma apre anche ai sottotemi della storia familiare come oggetto tramandato dagli antenati della protagonista, e alla storia universale dell’Olocausto.
C’è l’intenzione di raccontare la vicenda di un unico essere umano alla prese con una scelta. Una storia minuscola. Il fine di aggiungere artisticamente qualcosa al dibattito sul tema. Il tentativo di fare una riflessione più ampia su come i condizionamenti esterni interferiscono nel determinare ciò che siamo e le nostre azioni. Le tematiche e i propositi si stratificano e ricorrere ai simbolismi risulta necessario. La carne al fuoco è tanta.
Il fatto che sia una donna a tentare questa impresa non sorprende. Per il coraggio e la generosità espressiva, la regista Alexis Jacknow ce la mette tutta. Dalle sue parole a Comingsoon.net:
Sono così felice. È una storia molto personale per me. Mi ha torturato per anni, la decisione se avere o meno figli, e ho sentito un’enorme quantità di pressione da amici, famiglia, società, cultura… Sono una donna ebrea, e ci sono cose che ne derivano, per esempio sentirmi sotto pressione anche quando si tratta di maternità. E allora quale posto migliore per scrivere una storia dell’orrore se non la cosa che ti tiene sveglio la notte, sai?
Vale la pena vedere Clock?
Effettivamente il tratto autobiografico risulta uno strumento al servizio della resa complessiva, a cui si aggiunge un uso sapiente dei mezzi dei generi di riferimento. La mortificazione del corpo e l’esplorazione delle allucinazioni rappresentano una scelta, apprezzabile o meno, servono a veicolare il messaggio. Le sequenze più gravose per lo spettatore sono quelle in cui i temi vengono saturati e le potenzialità espressive dell’horror sondate. Perché quando la realtà interiore è rappresentata in maniera così esponenziale ferisce e la disposizione a farsi permeare è un viatico all’identificazione, per somiglianza o differenza.
Il personaggio di Ella sembra una persona orribile che nel tentativo di migliorarsi si trasforma in un essere umano ancora peggiore. Portare sullo schermo queste intenzioni nel modo in cui è stato fatto rischia di conferire alla storia una connotazione escatologica, con la fine che si chiude sull’inizio. Ella è una donna ebrea, come lo è la regista, che nel finale si assume questo rischio interpretativo. Doveva andare a finire così, questo è cio a cui si va incontro autodeterminandosi.
La conclusione potrebbe dunque risultare didascalica e questo opacizzerebbe l’impresa, togliendole smalto. Eppure non è detta l’ultima parola, l’opera va completata da chi guarda.