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La battaglia dei tre regni

Il portacolori della nouvelle vague hongkongese è tornato. Per giunta in forma più smagliante che mai.

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Il portacolori della nouvelle vague hongkongese è tornato. Per giunta in forma più smagliante che mai. A cinque anni di distanza da Paychek e Song Song & Little Car (episodio contenuto nel progetto All the Invisible Children) John Woo rimette mano alla macchina da presa dirigendo, e in parte scrivendo e producendo, l’imponente Battaglia dei Tre Regni: multimilionaria trasposizione sul grande schermo tratta da “Il romanzo dei tre regni” che vide la luce nel tredicesimo secolo grazie a Luo Guanzhong. Teatralmente divisa in tre atti (Lo scontro di Changban, quello di San Jiang Kou e di Red Cliff), scenografata dal premio oscar Tim Yip (La Tigre e il Dragone) e orchestrata dal direttore d’azione Corey Yuen (X-Men), La Battaglia dei Tre Regni rappresenta il lampante esempio di come andrebbe girato al giorno d’oggi un film di Cappa&Spada. Woo (e verrebbe da dire fortunatamente) limita al minimo indispensabile le derive new age rese celebri e insopportabili dall’ultimo Zhang Yimou, costruendo la pellicola su dolly vertiginosi, carrellate mozzafiato e improvvisi zoom dal sapore vintage; elegante e raffinato nella messa in scena dei totali paesaggistici, aggressivo quando si tratta di scagliare l’obiettivo tra la polvere sollevata dai corpo a corpo.

Piani e primissimi piani ricordano il Sergio Leone della “trilogia del dollaro”, mentre il montaggio serrato rivela, qualora ce ne fosse ancora bisogno, l’amore mai nascosto per Sam Peckinpah. Da sempre punto di riferimento, assieme a Melville, per il regista di The Killers. Mettendo la sua firma su Red Cliff John Woo rivela una sorta di Termopili d’Oriente, portando a termine un’impresa in celluloide riuscita di recente solo a Spielberg (concentrare un’intera opera su di un unico evento storico/bellico). Il cineasta vi riesce con successo grazie alla declinazione di alcuni capitoli portanti dell’Arte della Guerra di Sun Tzu (tramutare il miglior pregio dell’avversario nel suo peggior difetto, sfruttare a proprio favore le condizioni naturali e atmosferiche), accostati alla sua personale visione, virile e romantica, dell’eroico sentimento cameratistico. Leggendo bene tra le righe de La Battaglia dei Tre Regni, inoltre, è facile trovare anche un’evoluzione del John Woo autore e scrittore. Per la prima volta nella sua filmografia, infatti, fanno irruzione nella trama due donne (i personaggi rispettivamente assegnati a Chiling Lin e He Yin) capaci di interpretare ruoli finalmente funzionali all’evolversi della vicenda: la prima abile nel sfruttare il suo fascino per abbindolare e drogare Zhang Fengy, mentre la seconda risulterà addirittura decisiva ai fini della vittoria grazie all’androgino travestimento da infiltrata. Innovazione si, ma soprattutto tradizione. Non solo per quanto riguarda la materia trattata. Non è un caso che John Woo abbia scelto, per il suo ritorno in patria, questo tipo di testo. Solo apparentemente lontano dalle sue coordinate autoriali.

Dietro la fama internazionale raggiunta con il dittico A Better Tomorrow c’è l’esperienza maturata come assistente di Zhang Che, assieme a King Hu regista di punta di una colonia inglese pronta a farsi conoscere nel mondo con il marchio della Shaw Brothers. Tra il 1971 e 1973 Woo apprende il mestiere facendosi le ossa come aiuto nei vari I sette soffi del drago, L’assassino di Shantung, Marco Polo e Dinastia di sangue. Appena prima di approdare alla regia con I giovani dragoni. Nei primi anni ’70 cresce e matura, scoprendo e affinando quello stile che lo renderà popolare con la sua produzione hard-boiled. Non c’è da stupirsi, quindi, se le pose plastiche de La Battaglia dei Tre Regni ricordano non poco quelle tipiche di inizio anni ’80. Le pistole vengono sostituite dalle spade certo: ma la sostanza non cambia. I balenii oltre i limiti di gravità e la resistenza estrema dei corpi restano gli stessi. Come il cinema di John Woo, che si ritrova, rinnovandosi, attraverso la tradizione. Attenzione, a tal proposito, alla simbologia della colomba, che torna a farsi largo dopo l’indimenticabile stormo di The Killers. Esattamente vent’anni fa. John Woo è tornato. Hong Kong, per certi versi, è decisamente meglio di Hollywood.

Luca Lombardini


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