Tre minuti (Three Minutes – A Lengthening, 2021) di Bianca Stigter, in concorso nella seziona internazionale dell’UnArchive Found Footage Fest, e precedentemente passato alle Giornate degli autori al Festival di Venezia 2021, è una vera lezione di storia e di cinema.
Quei tre minuti d’immagini ritrovate fortuitamente, vero e proprio Found Footage, sono un reperto memoriale inestimabile, non a caso acquisito USC Shoah Foundation. Una manciata di minuti di un filmino amatoriale vacanziero girato nell’agosto del 1938, che mostrano un passato poi cancellato dall’Olocausto.
Sono immagini sgranate, rovinate dal tempo, in bianco e nero e a colori, che mostrano individui comuni, persone anonime di una piccola cittadina polacca, e che guardandole oggi effondono una dirompente forza storica.
Tre minuti, una profonda storia dietro quella manciata di minuti
Un filmato girato in maniera dilettantesca da David Kurtz, un benestante ebreo cresciuto in America, che nel suo viaggio vacanziero in Europa decise di visitare anche Nasielsk, città natale lasciata quando aveva appena quattro anni.
Prima del viaggio in Europa, decise di comprare una cinepresa, per immortalare il favoloso viaggio e poi, come d’uso, proiettarlo in America per amici e parenti. Ma quel dolce souvenir vacanziero contiene quei tre minuti, che dopo il 1939 acquisiranno un valore di dolore, di morte.
Molti di quei volti sorridenti, quell’aria festosa che si percepisce in quei pochi minuti di girato, saranno uno degli ultimi istanti di felicità. Il ritrovamento casuale della pellicola dentro un armadio, da parte del nipote Glenn Kurtz, evidenzia anche come David Kurtz l’abbia tenuta come reliquia, come camera verde, però mai più proiettata.
Il filmato, ovvero quei tre minuti girati a Nasielsk, ci viene mostrato per intero all’inizio, e poi la regista, giornalista e storica di professione, al suo primo film, lavora per i restanti sessantasei minuti su quelle immagini.
Ingrandimenti, ralenti, accelerazioni al contrario, correzioni di fuoco, ecc., tutti accorgimenti per cercare di carpire, da quel poco delle informazioni utili a dare un nome a quelle persone. Un lavoro di ricerca cominciato dapprincipio da Glenn Kurtz, ma trasformato in immagini da Bianca Stitger.
E sin dall’inizio del documentario, vediamo che per giungere a delle risposte, l’indagine è stata minuziosa, perché Glenn Kurtz inizialmente non sapeva nemmeno in quale città fosse stato girato.
Il lavoro è stato quello di scandagliare ogni singolo fotogramma e osservare ogni particolare dei medesimi per giungere a delle informazioni utili a per identificare luogo, periodo e soprattutto chi erano quegli individui.
Una situazione, e un’investigazione, simile a quella vista in Alla ricerca di Vivian Maier (Finding Vivian Maier, 2013) di John Maloof e Charlie Siskel, altro documentario basato sul Found Footage. In quel caso, conoscere l’autore di quell’enorme mole di stupende fotografie.
La Stitger non aggiunge nulla a quel materiale, perché gli interessa che lo spettatore resti in quel periodo, osservi e riviva quegli attimi di gioia, ben sapendo che tra qualche mese cominceranno le deportazioni degli ebrei e poi l’olocausto.
Un lavoro certosino di vera storia, fatto con un approccio didattico. Non soltanto per quanto concerne la ricostruzione di un “piccolo” fatto accaduto poco prima della Shoa, ma anche per le possibilità del cinema.
Il film(ato) come archivio di memoria viva, che non va perduto ma curato e conservato; e il lavoro minuzioso di analisi sulla pellicola che mostra le potenzialità della tecnica.
Una lezione di storia – sulle immagini e la memoria – che viene corroborata dalla voice over di Helena Bonham Carter, che racconta i dettagli del filmato e di quanto accadde nella piccola cittadina polacca nel 1939, e di Glenn Kurtz, che narra la sua ricerca precedente al documentario.
A queste due linee guida, si aggiungono le voci di alcuni sopravvissuti, che riescono a identificare alcune persone presenti in quel minutaggio.