Le Magnétophone è scritto diretto e realizzato da Noémi Aubry nel 2021. Racconta la storia della sua famiglia italo-francese attraverso il ritrovamento di un registratore: un gruppo di emigranti nella metà degli anni ’50, come tanti italiani. Anche se non tutti oggi se lo ricordano. Un racconto toccante di esistenze e un piccolo spaccato della società dei nostri antenati. Le musiche originali di Anouck Mangeat arricchiscono la storia con emozioni sottili.
Il film è stato già selezionato in due festival nel 2021 (Euganea Film Festival e MAX Diversity Film Festival), e coprodotto da Ozho Naayé. In Italia verrà proiettato in occasione della decima edizione del Festival Mente Locale in Emilia Romagna.
La trama di Le Magnétophone (il registratore)
Titolo francese come la lingua della regista e di alcuni componenti della sua famiglia. I nonni, Angelo e Benita, protagonista attiva della pellicola e della storia familiare, parlano ancora l’italiano e soprattutto il dialetto di Vo’ Euganeo, la città veneta che hanno lasciato per trasferirsi prima in Svizzera e in Francia poi, in cerca di lavoro.
Voglio vedere, o immaginare
Noémi vuole conoscere la storia della sua famiglia prima del suo arrivo, a partire dal ritrovamento di un videoregistratore di nonno Angelo. Attraverso interviste inedite, registrazioni audio, filmini, immagini, lettere e canzoni, Noémi Aubry ci porta in un viaggio tra passato e presente e ci fa entrare nella storia della famiglia Santimaria, a partire dalla morte di suo nonno. Un’occasione per tornare in quei luoghi e in quegli anni per una conoscenza genuina e senza troppa nostalgia. Nonna Benita, infatti, li ricorda come anni duri e di difficile integrazione. Parafrasando le sue parole: se mi dicessero di tornare indietro nel tempo per restituirmi trent’anni di vita, non lo farei mai. Certo, si sente la mancanza del marito, anche se sembra che ogni tanto torni a trovarla nella sua stanza.

Le Magnétophone: la recensione
Tra le voci di questo lungometraggio c’è anche quella della madre di Noémi, anche lei testimone di una difficile integrazione: nata quando erano già fuori dall’Italia, riconosce di aver vissuto dei problemi con la lingua materna, tanto da voler proteggere i figli dalle angherie e le cattiverie vissute da lei durante la crescita. Ma tanti altri sono i ricordi di una lunga esistenza vissuta che ci vengono poi mostrati.
Difficile pensare di raccontare una storia familiare suscitando parecchio l’interesse di qualcun altro: la regista lo fa in una maniera delicata e puntuale, come se decidesse di farci entrare nell’album dei ricordi di famiglia con un racconto di suoni, immagini e testimonianze che alle volte emoziona.
Inoltre, inserisce i fatti della Storia, quella delle testimonianze di una vita difficile: dal lavoro in miniera di Angelo, alle difficoltà di comprensione durante il primo parto di Benita e della figlia chiamata addirittura una volta “sporca italiana” da una sua insegnante. «Poi abbiamo capito che erano gentili», ricorda nonna Benita parlando del momento in cui arrivarono in Francia ed erano visti come stranieri. Non mancano neanche i riferimenti al dopo e all’attualità, con un altro parente che invece è restato in Italia.
Non dovrebbe esserci nuova questa condizione: persone che lasciano situazioni disagiate verso altri luoghi dove non si conosce la lingua e si viene trattati come “stranieri”: gli italiani sono stati un popolo di migranti, lo sappiamo e non tutti se lo ricordano.

Un popolo di migranti
«Cosa sai della vita dei nonni?», chiede Noémi, a un certo punto, al fratello «So che il nonno era minatore, poi muratore. E la nonna faceva la domestica». Al di là di ogni retorica populista, lavori come questo film sono l’occasione per rendere il passato ancora più noto, verso un futuro in cui i migranti non siamo più noi, ma esistono e forse possiamo dar loro una mano per non farli sentire come i nostri nonni.
Colpisce, tra le tante, una scena corale a metà del film, dopo quelle del matrimonio della madre dove tutti intonano un canto in dialetto (sembra) veneto: una scena che racconta l’unione e l’inclusione attraverso i canti popolari, simbolo di tradizioni condivise che riescono ad alternare attimi belli a condizioni che lo sono meno. È un momento in cui, si diceva, ci sembra davvero di entrare fisicamente dentro una casa, una famiglia: una proiezione privata che arriva e coinvolge, però, anche membri apparentemente esterni e distanziati da uno schermo.