Alina Marazzi e Marco Bertozzi sono i direttori artistici di UnArchive Found Footage Fest, il festival dedicato al riuso creativo delle immagini con la direzione organizzativa di Luca Ricciardi. Si tratta della prima edizione di un festival internazionale dedicato al riuso creativo delle immagini, frutto di una riflessione sulla funzione degli archivi audiovisivi e cinematografici nel mondo contemporaneo. Avrà luogo dal 3 all’8 maggio a Roma, nel cuore di Trastevere. Una manifestazione, ideata e prodotta dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico in collaborazione con Archivio Luce e con il sostegno del MiC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo e di altre istituzioni pubbliche e private. Qui per il programma dettagliato dell’evento.
Per saperne di più abbiamo fatto qualche domanda alla direttrice artistica di UnArchive Found Footage Fest Alina Marazzi.
UnArchive Found Footage Fest spiegato da Alina Marazzi
Com’è nata l’idea del festival? E come lo descrivesti, soprattutto considerando che sei probabilmente una delle persone più adatte a ricoprire il ruolo di direttrice artistica di un festival del genere.
Il festival è figlio di AAMOD, archivio del movimento operaio di Roma. Quest’anno c’è la prima edizione con anche una sezione competitiva oltre ad altre sezioni. In realtà, però, l’anno scorso c’è già stato un numero zero di questo festival che si può definire come una sorta di punto di arrivo delle residenze di suoni e visioni che la AAMOD fa già da alcuni anni, come il premio Zavattini, un bando rivolto a giovani filmmaker invitati a elaborare in maniera creativa i filmati d’archivio. Quindi UnArchive non è altro che il primo momento nel passato recente di questa apertura dell’archivio del movimento operaio.
Poi c’è da dire che io con AAMOD ho un rapporto di lunga data perché molti dei materiali che ho usato per i miei film (un esempio è anche Vogliamo anche le rose) sono tratti dal loro archivio e quindi c’è questo scambio.
Quando Luca Ricciardi, direttore organizzativo, ha pensato di nominare i direttori artistici ha chiesto a me e Marco Bertozzi, che si occupa di archivio da un altro punto di vista, come docente e storico, nonostante sia anche lui autore di alcuni documentari. La soluzione ideale era avere due figure: una creatrice, film maker, artista e uno studioso.
Oltre a me e Marco direttori artistici, si è lavorato anche con la squadra di AAMOD per la selezione che è stata lunga. Anche perché il bando è iniziato a girare ad autunno dello scorso anno e abbiamo visto ore e ore di film provenienti da tutto il mondo. Questa pratica del riuso dell’archivio che si declina in tantissimi modi abbiamo avuto la conferma che esiste dappertutto ed è sempre più presente questo interesse a rielaborare le immagini del passato e creare nuove narrazioni anche partendo da materiali preesistenti.
Visto che hai introdotto l’argomento della selezione dei film volevo chiederti com’è stato sceglierli e anche se c’è un tema ricorrente, oltre naturalmente al fatto di riusare le immagini, in quelli selezionati.
Il materiale d’archivio ormai lo vediamo spesso presente in tanto cinema contemporaneo anche in un cinema più convenzionale, di finzione. Ormai c’è questa febbre per l’archivio che ha contagiato anche il cinema mainstream.
Nel cinema documentario l’archivio è sempre stato di casa perché è tutto un filone con i documentari storici, biografici che lo utilizzano come documento. Però noi volevamo smarcarci da questa modalità documentaristica e andare a selezionare e presentare in questa vetrina i lavori che forzano i limiti del linguaggio documentaristico e quindi lavori che sono più sperimentali e di ricerca. Non a caso alcuni film in programma potrebbero essere mostrati nei musei di arte contemporanea o nelle gallerie. I cortometraggi sono spesso più audaci nel mettere in atto una narrazione più sperimentale. Sempre, però, pensando a un pubblico che si siede al cinema e sta seduto su una poltrona e vede un film dall’inizio alla fine.
Poi ci sono anche film più lunghi che sono più narrativi e usano l’archivio in modo più lineare. Abbiamo provato a fare questo sforzo di cercare lavori che non usassero l’archivio in maniera illustrativa. Tantissimi documentari narrativi anche molto belli sono stati non inclusi nella selezione perché volevamo andare nella direzione del cinema del riciclo.
La carriera di Alina Marazzi oltre UnArchive
Approfitto di quello che mi hai detto per aprire una parentesi sui tuoi lavori. Anche perché tu del riuso creativo delle immagini ne hai fatto un marchio di fabbrica. Come hai avuto questa intuizione? In qualche modo si può dire che hai reso il documentario un qualcosa di sovversivo (dopo Un’ora sola ti vorrei) che fino a quel momento era qualcosa di molto più statico e impostato. Come ti senti a essere la portavoce del riuso delle immagini in questo senso?
Un’ora sola ti vorrei è un film di ormai 21 anni fa ed è vero che in questi 20 anni c’è stata, anche tra i documentaristi italiani, una generazione, un’onda di autori che ha realizzato dei documentari diversi e ha ampliato quelle che sono le narrazioni all’interno del cinema di realtà.
Per quanto riguarda l’uso dell’archivio Un’ora sola ti vorrei è citato come un passaggio, un modo di guardare ai materiali privati, come i film familiari, amatoriali, che hanno fatto nascere diversi archivi, e molti autori si sono interessati all’archivio cercando di appropriarsene e creando delle narrazioni, smarcandosi dal documentario storico.
Stessa cosa per Vogliamo anche le rose. Quando è apparso nelle sale era inedito come film. Si sono aperte delle possibilità grazie anche al guardare le immagini del passato da una prospettiva del presente, per raccontare la contemporaneità. Anche il festival non mostra immagini del passato, ma anzi usa un linguaggio contemporaneo che mescola diversi generi e formati. Ed è una cosa che non si fa solo al cinema.
Quello di cui tu parli lo hai fatto tuo. E, anzi, sei ricorsa a questo uso creativo delle immagini non solo nel documentario, ma anche nel cinema di finzione con Tutto parla di te. Quindi credi che un lavoro del genere possa essere fatto solo con il genere documentario o possa spaziare anche nel cinema di finzione? Come hai avuto l’intuizione di usare quello che avevi fatto fino a quel momento, ma di applicarlo al film di finzione?
In Tutto parla di te, del 2012, così come negli altri, c’era l’intuizione di usare il repertorio del passato (generato da me in senso di documentario con interviste a queste donne) e usare la finzione come contenitore all’interno del quale possono dialogare altri elementi che provengono dalla realtà, quindi il documento in quanto film d’archivio.
Poi, oltre a questo, ho fatto anche due importanti esperienze nel teatro musicale curando la regia multimediale di opere liriche contemporanee in cui utilizzavo proiezioni di filmati d’archivio sul palco non come sfondo scenografico, ma come elemento narrativo e drammaturgico. Anche lì ho usato dei filmati di AAMOD in due opere di un compositore italiano, Mauro Montalbetti, e anche quella è stata un’esperienza importante per mescolare teatro musicale, opera lirica contemporanea, musica dal vivo, azione drammaturgica e filmati d’archivio perché le tematiche invitavano a usare l’archivio.
Anche queste esperienze fuori dalla sala cinematografica sono state comunque caratterizzate dall’utilizzo dell’archivio. Per me è un punto di partenza anche nelle ricerche quando affronto un nuovo tema.
Presente e passato
Anche nella selezione delle opere per il festival, seppur più sperimentali, sono comunque tutti documentari?
Sono tutti film documentari o comunque non fiction. Alla fine siamo rimasti sulla narrazione documentaristica anche se poi è riduttivo definirlo documentario.
Collegandosi a quanto detto fino a ora si può, in un certo senso, applicare il discorso del riuso creativo delle immagini nel senso che intendi dare al festival a quella che sembra essere quasi diventato una moda in una parte del cinema (più mainstream) di oggi che sembra privo di nuove idee e continua a spolpare le vecchie con rifacimenti, remake, revival?
Sì, è vero che molti film che escono sono film in costume e riguardano storie del passato. E comunque il cinema più commerciale, mainstream, con anche mezzi importanti, sta indagando e riproponendo delle estetiche della pellicola o anche del videotape.
Al festival presenteremo alcuni film brevi, corti, realizzati nelle scuole di cinema da studenti di arti visive. C’è una sezione dedicata ai giovani e alle scuole.
Secondo me c’è anche una questione emotiva, di fascinazione per le immagini e per i supporti visivi del passato, anche per la loro carica evocativa. Si cerca di acchiappare queste immagini del passato e farle nostre.
La selezione di UnArchive secondo Alina Marazzi
Tornando al festival cosa ti aspetti dai film in programma che hai selezionato e soprattutto cosa ti aspetti dal pubblico come reazione sia al festival sia ai film selezionati? Anche alla luce del fatto che negli anni più recenti il documentario sia un po’ più accessibile al pubblico.
Ci sono dei segnali che provengono da luoghi più istituzionalizzati come, per esempio, i festival di cinema che premiano i documentari. Un esempio è Venezia. Lo abbiamo visto l’anno scorso, ma in realtà il festival di Venezia ha iniziato a premiare nel 2013 con Sacro GRA di Gianfranco Rosi ed è stato il primo film documentario non solo a essere inserito nella sezione in concorso, ma anche il primo a essere stato premiato e questo ha creato grande discussione. Questo significa che nel momento in cui un festival premia un documentario il pubblico è già pronto da qualche anno. Mi vengono in mente anche i film di Stefano Savona, regista italiano acclamato e documentarista.
Quindi il pubblico per questo tipo di cinema off esiste, e naturalmente in una città come Roma. Noi speriamo che arrivino molti curiosi o anche persone annoiate di stare a vedere quello che le piattaforme rendono disponibile comodamente a casa.
L’idea è presentare titoli difficilmente reperibili, ma anche incontrare gli autori perché ci saranno diversi registi che presenteranno la propria opera. Poi ogni film è completamente diverso dall’altro. Ognuno porta con sé un universo.
Abbiamo anche spinto e incoraggiato gli studenti delle accademie e delle scuole di cinema a usare il festival come fosse un’aula.
Fare un film con l’archivio dal punto di vista produttivo non è semplice, ma al tempo stesso puoi provare a creare la tua versione attraverso il montaggio. Quindi c’è un’immediatezza rispetto al fare ed è interessante per cimentarsi. Può essere un modo per suscitare interesse da parte nostra come festival.
Concludo con una domanda difficile. Puoi indicare qualche film in particolare come in una sorta di guida del festival. C’è qualche titolo da non perdere?
Non posso esprimere una mia opinione, anche perché c’è il concorso con dei premi (ride, ndr).
Posso dire che c’è un concorso di lungometraggi e uno di cortometraggi. Ci saranno premi per il miglior uso creativo sia nel lungo che nel corto. Abbiamo anche delle sezioni fuori concorso perché erano tanti i film belli (abbiamo chiamato la sezione Frontiere perché le opere provengono anche da paesi extraeuropei). Abbiamo anche la sezione panorama italiani con titoli fatti con archivi recenti.
Il festival si inaugura con Werner Herzog e il suo film sui vulcanologi che ha realizzato usando il repertorio girato da una coppia di vulcanologi. Nel pomeriggio il festival apre con l’ultimo film di 3 ore di Enrico Ghezzi Gli ultimi giorni dell’umanità.
Segnalo poi tre serate di live performance all’ex cinema Alcazar, locale che era un tempo un cinema, con proiezioni e musica dal vivo: si tratta di spettacoli ideati dai musicisti in rapporto alle immagini che vengono proiettate. Sono delle serate in cui si può, quindi, godere dell’archivio in altre modalità, non stando seduti al cinema.
Nello specifico sabato sera ci sarà Massimo Zamboni che suona su delle immagini del funerale di Berlinguer; a ritroso, venerdì Davide Toffolo, fumettista e musicista, che presenta un suo spettacolo Bestiario; giovedì un duo musicale femminile, Francesca Bono e Vittoria Burattini, che suoneranno su immagini di film sperimentali su artiste donne.
Poi ci sono installazioni fuori dal cinema, all’Accademia di Spagna, una di Bill Morrison, artista statunitense di cui presentiamo l’ultimo film in concorso, e una di Leonardo Carrano che fa un lavoro materico sulla pellicola che, dopo essere stata lavorata e dipinta, è fruita attraverso la realtà virtuale. E, ultima, ma non meno importante, la sezione delle residenze artistiche e gli incontri, panel e forum con gli autori.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli