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“Delitto nella strada” di Don Siegel
Il cinema dei margini da riscoprire. Rubrica a cura di Beniamino Biondi
Published
13 anni agoon
By
Redazione
Anno: 1956
Durata: 91′
Genere: Drammatico
Nazionalità: USA
Regia: Don Siegel
L’invasione degli ultracorpi fu un fiasco. Stati Uniti, 1956. Sono gli anni della Guerra Fredda e dell’amministrazione di Dwight Eisenhower, dunque del lauto tentativo di mantenere l’impegno nazionale nel contrastare la diffusione dell’influenza sovietica; sono ancora gli anni della fine dell’isterismo maccartista ma non della Paura Rossa, pure se l’Unione Sovietica aveva a suo modo dato l’abbrivo al disgelo denunciando i crimini di Stalin. La verosimile fantascienza del film di Don Siegel, con la sua morale squisitamente ambigua tra perversione anticomunista e disubbidienza anticapitalista, era inevitabile si traducesse in un fallimento; gli americani non poterono comprendere, e laddove poterono non vollero farlo, la complessa ragnatela dei sottotesti simbolici del film e il sostanziale principio di ipostatizzazione compiuto attraverso la figura anfibia dell’alieno come (non) Totalmente Altro. Siegel, che come tutti gli americani è un uomo pratico, non si paralizza in vaghezze congetturali e postulati meditativi, piuttosto si adopera a realizzare un secondo film a distanza di pochi mesi dal precedente, ancora nel 1956. Per Delitto nella strada, traduzione italiana dell’originale Crime in the streets, il consenso di critica e pubblico sarà amplissimo negli Stati Uniti quanto in Europa.
In seguito ad uno scontro fra due bande rivali di minorenni, Frankie Dane – capo di una delle due fazioni – viene denunciato da McAllister dopo che questi lo ha veduto minacciare con una pistola un giovane balordo della banda rivale. Frankie, ragazzo violento e tormentato, medita vendetta, e insieme a due balordi suoi amici, Lou e Angelo, prende la decisione di uccidere MacAllister. Dispone così il suo piano con metodo e cautela, intanto che la sua vita procede nell’appartamento della misera periferia in cui vive accanto ad un fratellino di cui e geloso e che umilia senza sosta ed una madre che si ammazza di lavoro per mantenere la famiglia. Il fratellino, che ammira Frankie e al contempo ne ha paura, confessa le intenzioni dell’omicidio a Wagner, un assistente sociale, il quale tenta disperatamente di frenare le intenzioni delittuose di Frankie. La notte dell’omicidio, inscenata una farsa per attirare MacAllister in un fetido vicolo, Frankie punta il coletto alla gola del delatore, ma l’arrivo del fratellino impedisce che si commetta il fatto. Frankie punta al collo del piccolo, ma, al suo sguardo innocente, lascia la sua arma e costringe i suoi compagni alla fuga. Poi, con Wagner, si allontana per costituirsi alla vicina centrale di polizia.
Il film è derivato con una certa fedeltà da un teledramma di Reginald Rose – scrittore oggi dimenticato, ma ai suoi tempi piuttosto noto – che era stato adattato per la televisione da Sidney Lumet col titolo originale di Twelve Angry Men. Sono gli anni del realismo sociale; un realismo che non aggredisce e sfuma talvolta nell’oleografia, ma ad ogni modo un tentativo sincero di comprensione delle dinamiche sociali e della relazione tra miseria e delinquenza. Sono gli anni del cinema dell’inquietudine giovanile: Nicholas Ray con Gioventù bruciata, Laszlo Benedek con Il selvaggio. Ma in quel cinema la rabbia si costituiva quale forma di marginalità esistenziale – soprattutto per James Dean – con derive inconsapevoli e mestamente capricciose, laddove per Siegel il discorso afferisce all’identità complessiva della società nell’era del capitalismo del dopoguerra. In fondo è lo scontro fra una visione umanistica e classica della cultura contro una visione antropologica e moderna, quasi che sia una lotta fra destino e storia. Se dei film citati quello di Siegel è complessivamente il più debole, senza dubbio ha però tratti di modernità suggestiva e altamente interlocutoria. Nel processo di rielaborazione fedele del testo di Rose, Siegel mantiene alcuni degli attori dell’originale televisivo di Lumet: John Cassavetes, esaltato e ghignante, e Sal Mineo, che ottiene un Oscar per la sua recitazione nervosamente introflessa.
Beniamino Biondi