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Reviews

“Delitto nella strada” di Don Siegel

Il cinema dei margini da riscoprire. Rubrica a cura di Beniamino Biondi

Pubblicato

il

Anno: 1956

Durata: 91′

Genere: Drammatico

Nazionalità: USA

Regia: Don Siegel

L’invasione degli ultracorpi fu un fiasco. Stati Uniti, 1956. Sono gli anni della Guerra Fredda e dell’amministrazione di Dwight Eisenhower, dunque del lauto tentativo di mantenere l’impegno nazionale nel contrastare la diffusione dell’influenza sovietica; sono ancora gli anni della fine dell’isterismo maccartista ma non della Paura Rossa, pure se l’Unione Sovietica aveva a suo modo dato l’abbrivo al disgelo denunciando i crimini di Stalin. La verosimile fantascienza del film di Don Siegel, con la sua morale squisitamente ambigua tra perversione anticomunista e disubbidienza anticapitalista, era inevitabile si traducesse in un fallimento; gli americani non poterono comprendere, e laddove poterono non vollero farlo, la complessa ragnatela dei sottotesti simbolici del film e il sostanziale principio di ipostatizzazione compiuto attraverso la figura anfibia dell’alieno come (non) Totalmente Altro. Siegel, che come tutti gli americani è un uomo pratico, non si paralizza in vaghezze congetturali e postulati meditativi, piuttosto si adopera a realizzare un secondo film a distanza di pochi mesi dal precedente, ancora nel 1956. Per Delitto nella strada, traduzione italiana dell’originale Crime in the streets, il consenso di critica e pubblico sarà amplissimo negli Stati Uniti quanto in Europa.

In seguito ad uno scontro fra due bande rivali di minorenni, Frankie Dane – capo di una delle due fazioni – viene denunciato da McAllister dopo che questi lo ha veduto minacciare con una pistola un giovane balordo della banda rivale. Frankie, ragazzo violento e tormentato, medita vendetta, e insieme a due balordi suoi amici, Lou e Angelo, prende la decisione di uccidere MacAllister. Dispone così il suo piano con metodo e cautela, intanto che la sua vita procede nell’appartamento della misera periferia in cui vive accanto ad un fratellino di cui e geloso e che umilia senza sosta ed una madre che si ammazza di lavoro per mantenere la famiglia. Il fratellino, che ammira Frankie e al contempo ne ha paura, confessa le intenzioni dell’omicidio a Wagner, un assistente sociale, il quale tenta disperatamente di frenare le intenzioni delittuose di Frankie. La notte dell’omicidio, inscenata una farsa per attirare MacAllister in un fetido vicolo, Frankie punta il coletto alla gola del delatore, ma l’arrivo del fratellino impedisce che si commetta il fatto. Frankie punta al collo del piccolo, ma, al suo sguardo innocente, lascia la sua arma e costringe i suoi compagni alla fuga. Poi, con Wagner, si allontana per costituirsi alla vicina centrale di polizia.

Il film è derivato con una certa fedeltà da un teledramma di Reginald Rose – scrittore oggi dimenticato, ma ai suoi tempi piuttosto noto – che era stato adattato per la televisione da Sidney Lumet col titolo originale di Twelve Angry Men. Sono gli anni del realismo sociale; un realismo che non aggredisce e sfuma talvolta nell’oleografia, ma ad ogni modo un tentativo sincero di comprensione delle dinamiche sociali e della relazione tra miseria e delinquenza. Sono gli anni del cinema dell’inquietudine giovanile: Nicholas Ray con Gioventù bruciata, Laszlo Benedek con Il selvaggio. Ma in quel cinema la rabbia si costituiva quale forma di marginalità esistenziale – soprattutto per James Dean – con derive inconsapevoli e mestamente capricciose, laddove per Siegel il discorso afferisce all’identità complessiva della società nell’era del capitalismo del dopoguerra. In fondo è lo scontro fra una visione umanistica e classica della cultura contro una visione antropologica e moderna, quasi che sia una lotta fra destino e storia. Se dei film citati quello di Siegel è complessivamente il più debole, senza dubbio ha però tratti di modernità suggestiva e altamente interlocutoria. Nel processo di rielaborazione fedele del testo di Rose, Siegel mantiene alcuni degli attori dell’originale televisivo di Lumet: John Cassavetes, esaltato e ghignante, e Sal Mineo, che ottiene un Oscar per la sua recitazione nervosamente introflessa.

Nei confronti del testo cui si ispira, l’atteggiamento di Siegel è però contrastante: se da un lato il regista condivide gli assunti culturali di Rose – un ordito di sceneggiatura disposto alla risoluzione delle tensioni sociali, la privazione degli affetti come esito alla disgregazione familiare e alla miseria, il disordine giovanile tra nichilismo e affrancamento sociale, l’integrazione impossibile delle aspirazioni degli immigrati neoamericani -, dall’altro ha in sospetto, per propria cultura e per carattere, l’arido manicheismo dei caratteri e delle tipizzazioni psicologiche (il cattivo dal cuore d’oro, il samaritano, il buon padre di famiglia, la madre affranta, l’amico vigliacco), il determinismo freddamente causale delle azioni progressive (la delazione, il piano d’omicidio, l’agguato, il pentimento). L’insofferenza di Siegel, allora, come i suoi continui scontri con Reginald Rose, lasciano una traccia evidente sulla pellicola assurgendo a limite frenante. Il regista sostanzialmente non accetta l’equazione per cui al realismo equivalga una certa eccessiva semplificazione che in fondo anticipa nel giudizio lo svolgimento del film, sicché appaiono chiari gli intenti moraleggianti e la stessa risoluzione del finale. L’uomo di Siegel, nel corpus della sua restante opera, possiede un’umanità tale per cui egli stesso è il punto di fuga e di contestazione dalle sue proprie necessità e dalle sue conseguenze logiche d’azione, l’uomo fallibile nel suo stesso destino. In questo senso il suo più autentico eroe è l’Alcatraz/Eastwood, non Frankie/Cassavetes. Del resto la poetica di Siegel, antintellettualistica e radicale, giova solitamente alla rappresentazione dell’azione umana come precipitato aleatorio dei principi del fato e della necessità, dunque nell’impossibilità che a un certo dato consegua ineluttabilmente un altro certo dato. L’istinto dell’uomo siegeliano prevale sempre sul buon senso e sulla logica; una sorta di psichismo barbaro, metastorico, ecumenico e persino – a suo modo – morale. In questo senso la sequenza finale del film, conciliatoria e banalmente stereotipata sui buoni sentimenti americani, stride per effetto di una precipitosa risoluzione dei conflitti sociali e per uno scioglimento della vicenda assai distante dai finali splendidamente tronchi e insoluti di Siegel, che, ad ogni modo, riassume con sensibilità d’analisi le dialettiche umane tra i suoi ribelli di strada e la malinconia di un personaggio quasi centrale come Wagner, assistente sociale e padre sostitutivo, redentosi da un oscuro passato ma non ancora affrancato dal dolore e dalla consapevolezza di un male senza storia e senza ragioni che tutte le ragioni divora e schiaccia; il suo volto sconsolato, la sua stazza legnosa, la sua sostanziale marginalità al destino altrui, di lui ogni cosa tramanda impotenza e disagio.

Col tempo, il valore di Delitto nella strada è stato ampiamente ridimensionato dalla critica e talvolta si è finito, per eccesso di zelo, a sottostimarne le qualità e il portato cinematografico. Difatti il film di Siegel, che forse rientra nel genere dei film più importanti che belli, ha tempra nell’affrontare il tema del disagio giovanile di una classe economicamente miserabile (splendidamente fotografata in una triste e opprimente scenografia in cui persino il basso budget fa risaltare il senso generale di claustrofobia) e non più della media borghesia americana; qui è il tema non della libertà, ma quello assai più serio della dignità umana in mezzo ai caseggiati fatiscenti di una periferia urbana nella quale si consuma un dramma che – ed è un’interpretazione suggestiva che occorre tentare – affonda le sue origini in un dilemma oscuramente psicanalitico di gelosie familiari e complessi edipici. L’esigenza, tipica del cinema americano liberal degli anni ’50, di fornire un’interpretazione raziocinante dei conflitti interiori ha gioco nel sottrarre profondità reale al film che frena proprio per un eccesso di parola a fronte di certi silenzi che avrebbero meglio detto la difficoltà del dire. Notazioni marginali, comunque, che non ledono il valore di un film tenacemente non irrigidito alla filologia del cinema americano degli anni ’50. Un film di Don Siegel, ecco.

Beniamino Biondi 

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