The Yellow Sea
La settima giornata del Florence Korea Film Fest ha avuto il suo apice con la proiezione serale di The Yellow Sea, film in concorso nella sezione Orizzonti Coreani. Si tratta di un’opera seconda, realizzata dal regista Na Hong-jin, dopo il sorprendente esordio del 2008 con il thriller The Chaser, divenuto un film di culto per tutti gli appassionati del genere e applaudito alla sessantunesima edizione del Festival di Cannes.
Gu-nam, tassista in una poverissima provincia autonoma coreana situata alla frontiera tra Russia, Cina e Corea del Nord, popolata in gran parte da coreani chiamati Joseonjok, ghettizzati sia dai cinesi che dagli stessi coreani, è oppresso dai debiti dopo che la moglie se n’è andata a Seul in cerca di un lavoro senza dare più notizie di sé. Per cercare di fare qualche soldo inizia a giocare d’azzardo, col risultato di peggiorare solo la situazione, fino a quando un boss locale gli propone di recarsi in Corea del Sud per uccidere un uomo e ripagare così per intero il suo debito. Gu-nam accetta riluttante e si ritrova così a Seul per portare a termine il lavoro e cercare di ritrovare la moglie scomparsa, non sapendo ancora di essere finito in una situazione più grande di lui, intrappolato in un ingranaggio da cui sarà difficile uscirne.
Con il suo secondo film, Na Hong-jin conferma l’ enorme talento di cui aveva dato prova con The Chaser, i cui diritti sono stati acquisiti dalla Warner per l’immancabile remake americano. Un’altra grande major hollywoodiana, la 20th Century Fox, ha invece coprodotto The Yellow Sea, cosa assai insolita per il cinema coreano e che dimostra quanta attenzione abbia attirato su di sé il regista grazie alla sua opera d’esordio. Squadra che vince non si cambia, e così il regista torna di nuovo a lavorare insieme al direttore della fotografia di The Chaser,Lee Sung-je, con il montatore Kim Sn-Min e anche con i due attori Kim Yun-seok e Ha Jung-woo, scelti nuovamente come protagonisti ma a ruoli invertiti: il killer seriale del primo film diventa qui lo sfortunato personaggio con cui empatizzare, mentre quello che ricopriva il ruolo del “buono” si trasforma nel brutale villain. La pellicola, molto lunga e complessa nel suo sviluppo narrativo, è divisa in quattro capitoli che sottolineano lo sfortunato percorso, a cui assistiamo sullo schermo, di Gu-nam.
Originale l’ambientazione iniziale, che porta alla luce la triste condizione dei Joseonjok, questione assolutamente poco nota al pubblico occidentale e che sarebbe stato interessante approfondire, mentre in questo caso funge solo da spunto narrativo.
Un tema ricorrente in entrambe le pellicole realizzate da Na Hong-jin riguarda la totale incapacità e la grottesca inadeguatezza della polizia coreana, che appare sempre impreparata nell’ affrontare i criminali, che al contrario risultano molto più efficienti nel loro “mestiere” e che in questo thriller combattono sempre all’arma bianca, con l’uso di coltelli, martelli e addirittura, in una delle scene più cruente ma al contempo godibile e non priva d’ironia, con ossi di manzo. Gli unici colpi di pistola vengono esplosi dai poliziotti con esiti sconfortanti. La storia parte lentamente, il regista si prende tutto il tempo necessario per dipanare l’intreccio ed arrivare quindi alla magistrale sequenza, tesa, avvincente e dal sapore hitchcockiano, dell’omicidio commissionato a Gu-nam, dove niente va come previsto e da cui si scatena una gigantesca caccia all’uomo nei suoi confronti , braccato sia dalla polizia che dai criminali. Da qui in poi assistiamo ad estenuanti inseguimenti mozzafiato, a piedi o in auto con tanto di incidenti catastrofici che rimandano al cinema americano e che fanno intuire l’influenza della major hollywoodiana in queste dispendiose e virtuosistiche sequenze.
The Yellow Sea è nel suo complesso un thriller riuscito, meno compatto ed essenziale rispetto a The Chaser, che riserva anche un paio di colpi di scena (da non perdere in proposito i titoli di coda). Na Hong-jin, con appena due titoli all’attivo, è già da considerare uno degli autori imprescindibili del cinema coreano e di cui sentiremo parlare sempre di più in un prossimo futuro, sperando vivamente che non si faccia tentare troppo dalle inevitabili sirene hollywoodiane.
Hindsight
Un brevissimo commento riservato al trascurabile film di chiusura di questa settima giornata del festival. Si tratta di Hindsight, proiettato all’interno della retrospettiva dedicata all’attore Song Kang-ho.
La nuova fatica del regista Lee Hyun-seung è un improbabile gangster movie con sprazzi di romanticismo e melodramma. La pellicola è talmente patinata da risultare spesso stucchevole e indigesta, con i suoi continui sfondi da cartolina nella parte ambientata a Busan, città di mare della Corea del Sud. Quando la scena si sposta a Seul la situazione non migliora, con continue e fastidiose vedute notturne di una metropoli ripresa dall’alto dei suoi grattacieli. La trama è decisamente inverosimile, con Song Kang-ho nei panni di un gangster bonaccione e romantico che tutto sembra fuorché un criminale. Verso il finale del film abbiamo pure un inseguimento in macchina che pare uscito da uno spot televisivo di una qualche casa automobilistica per quanto è fasullo e pulito. Non a caso il regista, tornato sugli schermi a distanza di ben undici anni e che forse avrebbe fatto meglio a ritardare ancora il suo rientro alla regia, si è laureato e specializzato nel settore pubblicitario.
Hindsight è un’opera vuota e inconsistente, spesso irritante. Non basta la buona alchimia tra la giovane interprete Shin Se-Kyung e Song Kang-ho, peraltro utilizzato male in un ruolo privo di spessore, a salvare il film dal disastro più totale.