In Concorso al Far East Festival nr. 25, ha suscitato interesse, divertimento e positivi riscontri Techno Brothers, l’ultima folle fatica del regista nipponico Watanabe Hirobumi, affiancato per l’occasione, come già nel documentario sulla solitudine da Covid 19 Way of life, portato pure lui quest’anno al FEFF, ma Fuori Concorso, dal fratelli Yuji, da sempre collaboratore e curatore delle musiche dei suoi film.
La lunga strada verso il successo, e verso una capitale ove poter illudersi di sfondare
Tre giovani musicisti, guidati da una dispotica manager che intende sfruttarli al solo scopo di arricchirsi, decidono, indotti da una sfuggente agente musicale che si rapporta a loro tramite un terzo interlocutore, di tentare la via della fortuna verso la capitale, Tokyo, dopo gli scarsi riscontri che il loro genere musicale elettronico ha incontrato tra i locali della loro provincia.
Senza un soldo, sottomessi dalla loro giovane e spregiudicata manager che li sfrutta e li tiene a digiuno, i tre si esibiranno in luoghi e occasioni davvero singolari (suoneranno anche in una serra per sperimentare il rapporto di crescita delle orchidee a contatto con la musica elettronica), e la band finirà per assottigliarsi in due soli membri sui tre originari.
Una vita di stenti e schiavitù che i due sopravvissuti alla quale si rassegneranno, salvo un piccolo, orgoglioso periodo di ribellione che verrà sedato con nuove ulteriori angherie.
Techno Brothers – la recensione
Il cinema di provincia, legato alla vita contadina della cittadina giapponese di Otawara, lascia spazio con questo film e per la prima volta con Watanabe, alle lunghe e spoglie autostrade che collegano la prefettura di Tochigi alla metropoli di Tokyo.
La capitale infatti diviene la meta finale, difficile da raggiungere senza problematiche devastanti, dello sconquassato gruppo musicale formato dai tre fratelli in camicia rossa, desiderosi di essere conosciuti come Techno Brothers.
Watanabe Hirobumi si rifugia. ancor più che nelle variegate piccole opere precedenti, quasi tutte intimiste e circoscritte nei tempi e nei luoghi, oltre che nei personaggi, dentro un umorismo caustico e un po’ masochista che ricorda, per certi versi, la comicità nervosa, ma anche trattenuta, del primo Takeshi Kitano, e ancor più lo humor sarcastico e sottilmente crudele fatto di repressioni e di repressi tipica della poetica di Aki Kaurismaki.
Impossibile non pensare ai Leningrad Cowboys, ma le citazioni ai capisaldi del cinema musicale abbondano, a partire naturalmente dai mitici e scanzonati Blues Brothers di Landis.
Il film di Watanabe intende probabilmente riflettere in modo semiserio, ma nemmeno troppo, sulla natura dell’arte, la quale, con una creatività a disposizione di tutti, crea inevitabilmente dei fakes e anche illusioni che generano amarezza e sconforto.
Chi nasce al comando, e chi per essere comandato
Ma il film folle e divertente, suddiviso in brevi capitoli esilaranti già solo dal titolo, vuole essere anche uno specchio che mette in evidenza come nel mondo l’umanità si divida in due sostanziali categorie: chi comanda perché ha il carattere, più che le capacità, per imporsi e chi è sfruttato e subisce, trovandosi in una situazione in cui è lecito solo lamentarsi in silenzio e patire ingiustizie.
Nel film si ride, ci si diverte, si dicono cose non certo nuove, che però confermano che, a volte, un pizzico di follia risulta il modo migliore di analizzare il senso della vita e dell’indole umana, riuscendo a volte anche a cavarsela.