Best in the world è il quinto lungometraggio del documentarista Hans Christian Post, che ritrae in maniera suggestiva i due volti di Copenhagen, da una parte una delle città più vivibili al mondo, dall’altra lo specchio di diseguaglianze sociali difficili da sanare.
Presentato in Concorso a Mente Locale Visioni sul Territorio 2023 , con proiezione in anteprima regionale sabato 13 maggio.
Best in the world
Copenhagen è una citta esemplare e di successo. Maestosa e perfettamente in linea con gli standard qualitativi più elevati, brilla da anni nei ranking europei e internazionali. Vivibilità, inclusività e creatività sono il lascito persistente della sua immagine oltre nazione, in una parabola che continua ad ascendere.
Lungimiranti iniziative politiche e una corretta progettualità di ingegneria civile hanno trasformato in qualche manciata di anni una città originariamente industriale alla soglia della banca rotta in quello che è oggi: il luogo da emulare.

Tuttavia, ogni tesi ha la sua antitesi, ed è questa che Best in the world intende esplorare. Il lustro certamente rimane, ma a circa un trentennio dall’inizio della sua evoluzione, Copenhagen comincia a mostrare le prime feritoie.
Architetti, attivisti e scrittori locali le raccontano davanti alla cinepresa.
Tra nostalgia del passato e preoccupazione per il futuro, descrivono le crepe economiche e sociali che sanciscono confini invalicabili con le periferie, rendendo la città effettivamente fuori dalla portata di una grossa fetta della popolazione.
Lo stile di Hans Christian Post
Parlando del genere documentario, Roberto Nepoti sostiene che:
“È difficile definire rigorosamente l’area semantica che il termine è chiamato a ricoprire”
Hans Christian Post lo sa perché non è un documentarista di primo pelo. Dal 2014 regista e produttore indipendente, è dal lontano 2000 che mastica il linguaggio documentaristico.
La sua cifra stilistica, riconoscibile già nel tessuto del suo primissimo lavoro Last Exit Alexanderplatz, è quest’amalgama di realtà, ovvero l’intreccio tra il design delle metropoli, la conservazione degli edifici, la memoria e la cultura politica.
Best in the world rispecchia infatti questa peculiarità, avendo preservato nel montaggio un’ampia gamma di riprese dell’architettura di Copenhagen, intesa simbolicamente come passepartout verso le sue due anime.
La cinepresa trasmigra dalle opere civili dell’uomo alle sue parole, con lo scopo da una parte di ricostruire i processi decisionali che hanno condotto alla rappresentazione contemporanea di Copenhagen, dall’altra di passare in rassegna i coni d’ombra del presente e le prospettive per i tempi a venire.

Il risultato è un prodotto asciutto, che in un bilanciamento tra punti di vista incarnati e sequenze urbane ritorna in maniera efficace sul punto di domanda sottinteso nel titolo: Copenhagen è davvero la migliore città al mondo? O più in generale: sono queste le caratteristiche che dovrebbe possedere una città per essere considerata la migliore?
La prospettiva umana come punto di partenza e l’arte per oltrepassarla
Quando si parte da una domanda, il pensiero si attiva alla ricerca della verità.
È per questo che in Best in the world la narrazione procede per opposti: Copenhagen è dapprima una città industriale, povera e invivibile e successivamente si trasforma in uno sfarfallio di cultura, ricchezza e vivacità. Un trentennio fa la fisionomia della città svelava un mix di classi sociali ed adesso è monopolio esclusivo dei gruppi più agiati.
Le sequenze rimarcano questa polarizzazione: dall’alto Copenhagen colpisce perché ordinata, imponente e elegante, mentre la cinepresa riprende frontalmente o in affondo solo ciò che è spoglio, desolato o tristemente ancora in costruzione.
Poiché la realtà è presto inquadrata: la città rischia di soccombere se non verranno realizzate iniziative più inclusive e sostenibili.
Una volta colto il senso manifesto della verità rappresentata dal contenuto del film, subentra l’arte: allora sconvolgono i luoghi disabitati, i cantieri disseminati nei vuoti della città, il brulicare della vita che scorre nonostante tutto.

Non si rinviene certo un realismo magico in grado di fornire allo spettatore larghezza di partecipazione, ma neanche una sua versione tout court, in cui basta essere onesti per centrare il bersaglio.
È l’estetica di Best in the world come guida verso il fare etico a rappresentare il calco del lungometraggio. Lo sguardo si fa quindi strumento per riflettere, ricostruire, immaginare qualcosa di diverso, partendo dal sempre controverso libero arbitrio ed irradiandosi verso temi quali libertà, dignità o responsabilità.
Festival Mente Locale – Visioni sul territorio