Sabrina Baracetti è alla guida del Far East Film Festival sin dagli origini. Sotto il suo sguardo ha visto scorrere decenni di cinema orientale sconosciuto al grande pubblico. Perle nascoste, diamanti brillanti dal punto di vista visivo, narrativo, compositivo, che ha sempre cercato di portare alla luce qui in Italia, attraverso il Far East Film Festival e poi la Tucker Film distribuzione.
L’abbiamo intervistata per conoscere le linee guida della 25a edizione del Festival e farci contagiare dalla sua incontenibile passione per queste straordinarie cinematografie lontane.
Sabrina Baracetti
Qual è la specificità di un festival come quello di Udine?
Il Far East Film Festival nasce venticinque anni fa con lo scopo di approfondire una produzione asiatica che riguarda principalmente i generi cinematografici e, soprattutto, un’idea di cinema popolare. Quando siamo partiti, abbiamo viaggiato attraverso l’Oriente, incontrando i produttori, i registi, i distributori, gli attori. Abbiamo visto i film nelle sale cinematografiche di quei luoghi e ci ha colpito quanto fossero affollate, quanto, cioè, il cinema fosse ancora vissuto come un fenomeno popolare. Motivo per cui ci siamo posti l’obiettivo di raccontare questa specificità del cinema asiatico, che riguardava cinematografie come quella di Hong Kong, quella giapponese, quella sudcoreana che stava nascendo, anzi rinascendo proprio in quel momento. Una delle forze del Far East Film Festival è stata quella di rispecchiare tutto il fenomeno che ha portato una cinematografia come quella sudcoreana alla ribalta internazionale, fino a raggiungere il premio più ambito, l’Oscar al miglior film straniero, con Parasite di Bong Joon-ho.
Bong Joon-ho
Quanto è complicato organizzare un festival come questo?
È complicato e anche fantastico. Ovviamente, è un lavoro di squadra, condiviso con tutti i collaboratori del Far East Film Festival. La difficoltà è confrontarsi ogni giorno con l’altra parte del mondo, quindi cominciando con un fuso orario non da poco, delle volte piuttosto limitante, nel senso che è complicato essere sincronizzati con i nostri partner asiatici, geograficamente molto lontani e che, temporalmente, vivono un altro momento della giornata. Poi abbiamo a che fare con tantissime lingue. Questo è stato difficile soprattutto all’inizio del Festival. Poi, nell’arco di questi venticinque anni, abbiamo finito per parlare tutti in inglese, anche loro hanno cominciato a utilizzare un inglese molto semplice che permesse di capirci e conoscere culture, attitudini, atteggiamenti, completamente diversi, anche dal punto di vista lavorativo, perché c’è poi tutta una fase di contrattazione economica non sempre semplice. Chiaramente, è molto diverso rapportarsi con una compagnia giapponese rispetto a una cinese o filippina. Ci sono delle differenze culturali molto rilevanti tra le varie aree cinematografiche che andiamo a esplorare ogni anno.
Come nasce questa personale passione per il cinema orientale?
Per chi appartiene alla mia generazione, era molto difficile vedere certi film. C’era tutto un lato misterioso, esotico, quando riuscivi ad assicurarti la visione di alcuni capolavori assoluti. Ricordo che, pioneristicamente, si riuscivano a recuperare supporti video, che adesso nemmeno esistono più, tramite amici cinesi che vivevano nella tua città, magari anche persone che avevano ristoranti asiatici. Scoprivi dei titoli che non avevi mai visto e che nessuno, o quasi, conosceva. Quando è cominciata questa passione era proprio un altro modo di fruizione del cinema. Posso dire che, personalmente, c’è stata un’attrazione fatale verso alcuni film che mi hanno fatto innamorare di queste cinematografie. Cito uno per tutti: Hong Kong Express di Wong Kar-wai. Può essere un esempio lampante dell’idea che ci ha portati a fondare un festival sul cinema dell’Estremo Oriente. Un film che rappresentava un universo sconosciuto, lontanissimo, popolare. È stato la miccia che ci ha condotti dall’altra parte del mondo a scoprire che, quello che noi conoscevamo, era solo la punta dell’iceberg, a trovare, sorprendentemente, che c’era molto di più. Grandissimi registi stavano nascendo in quel momento. Molti li abbiamo seguiti nel tempo, rivelati, alcuni li abbiamo persi per strada, altri sono diventati famosissimi e hanno fatto tappa nei maggiori festival generalisti, come Cannes, Berlino o Venezia.
Hong Kong Express
Quali sono stati i criteri che, in particolare, hanno guidato la selezione di quest’anno del Festival?
Principalmente il criterio originale, cioè la passione verso i generi, verso un cinema popolare accessibile a un vasto pubblico, quindi lasciando perdere il prodotto specificamente pensato e creato solo per i festival. E poi la curiosità di andare a capire cosa è successo, dopo quasi tre anni di pandemia, in queste cinematografie. Infine, il tentativo di fare una sorta di bilanciamento tra le varie nazioni e, quindi, presentare sia cinematografie più forti sia meno note, come quelle del Sud-est asiatico, che stanno dando segnali molto positivi, ma che hanno caratteristiche completamente diverse a livello d’industria cinematografica. Per esempio, il cinema filippino è poco presente a livello internazionale, ma trova una vetrina importante in un festival come il nostro.
Quanto ha influito sul cinema asiatico la pandemia?
Tutti hanno reagito a questo periodo tragico che ha investito la vita di ognuno di noi. Ogni cinematografia, però, ha reagito in maniera diversa, con risultati nettamente differenti. Per cui, anche questo era molto stimolante: provare a comprendere cosa stava accadendo in Corea del Sud rispetto a Hong Kong o a Taiwan o al Giappone, che è rimasta la cinematografia più stabile in questi ultimi tre anni, anche perché, lì, le sale cinematografiche non hanno mai chiuso. Corea del Sud e Hong Kong, invece, sono, in questo momento, agli antipodi. Se vogliamo inoltrarci in questa lettura, e sicuramente la selezione del Far East Film Festival quest’anno lo fa, il cinema di Hong Kong vede una partecipazione popolare nel vero senso della parola. Il pubblico è addirittura cresciuto, in questi ultimi mesi, rispetto a prima della pandemia. Ha deciso di andare a seguire il prodotto nazionale, i film girati in lingua cantonese, quelli che sente più vicini. Se il box office hongkonghese è incredibilmente cresciuto, in Corea del Sud, invece, la situazione è completamente diversa. Il pubblico non è ancora tornato in sala. Il cinema, l’industria cinematografica sudcoreana, che era tra le più forti al mondo, ha subito una fortissima battuta d’arresto. Alcune sale cinematografiche di un circuito famosissimo sono addirittura state trasformate in palestre o in campi da golf al chiuso. Per cui, moltissimi film che erano pronti, non sono visibili perché non hanno ancora una data d’uscita. I distributori nazionali non hanno il coraggio d’investire perché c’è un forte senso di precarietà. Il box office delle sale che era, fino a prima del covid, l’elemento economico trainante di quella industria cinematografica, è adesso fortemente destabilizzato. Questa è una situazione che abbiamo cercato di raccontare attraverso la selezione di quest’anno e che approfondiremo incontrando i registi che verranno qui a Udine. Potremo dialogare con loro e capire quali sono le specificità dell’industria cinematografica asiatica in questo momento.
In My Mother’s Skin
Qual è, invece, lo stato qualitativo del cinema orientale dal vostro osservatorio?
Dal punto di vista qualitativo, quest’area del mondo è sempre stata una delle più interessanti, eccitanti e originali dell’intero pianeta. Dal nostro punto di vista, al di là della passione che nutriamo, scopriamo sempre novità. Non a caso, nel Festival c’è molta attenzione per i registi esordienti, ad esempio quest’anno ne abbiamo dodici. È anche un segnale che queste cinematografie puntano su talenti che poi riescono a superare i confini nazionali. Anche in questo caso, però, bisognerebbe fare le dovute differenze. Per tornare in Corea del Sud, dopo il covid, si percepisce l’affannosa ricerca, da parte dei registi, di trovare la storia più forte da raccontare. C’è una specie d’ansia da prestazione, dopo i grandi risultati conseguiti a livello internazionale. Questo ha probabilmente condotto a una perdita di lucidità, rispetto agli obiettivi che questi registi si erano dati fino a poco tempo fa. C’è un appesantimento del lato creativo, con alcune decisioni prese un po’ a tavolino, riguardo certe scelte narrative e artistiche. Anche se sono sicura che saranno, come sempre, capaci di rinnovarsi, stupirci e portarci a ragionare in maniera diversa rispetto ai canoni occidentali. Ci sono tantissime cose interessanti che nascono là. È un’area del mondo particolarmente vitale, dove si fanno politiche a sostegno del cinema e dei nuovi registi, soprattutto nei Paesi più forti, come il Giappone e la Corea del Sud.
Cosa vi aspettate in particolare da questa edizione, dal punto di vista del riscontro festivaliero?
Ci aspettiamo soprattutto che venga tanto pubblico, che molte persone raggiungano Udine per guardare sul grande schermo questi film, così come vanno visti. E ci aspettiamo che ci sia un incontro caloroso tra il pubblico e gli ospiti, che sono numerosissimi quest’anno. Un fenomeno che abbiamo notato è il desiderio di viaggiare, confrontarsi. Quest’anno si sente tantissimo la volontà, soprattutto da parte degli asiatici, di muoversi e incontrare un pubblico differente rispetto a quello a cui sono abituati, un pubblico internazionale con cui dialogare, anche per verificare se i loro film raggiungono persone di contesti culturali e geografici diversi. È, in qualche modo, anche una sfida, per loro.
In Italia, dopo una breve fiammata distributiva, oggi è difficilissimo vedere film provenienti da quelle cinematografie. Che cosa è successo e cosa si può fare?
È successo che non è facile distribuire i film asiatici, anche perché non ci sono finanziamenti nei confronti delle case di distribuzione che decidono di portarli nelle sale. Il Far East Film Festival ha sicuramente contribuito, in tutti questi anni, a creare un certo gusto nel pubblico e a promuovere questi film, però, per un distributore, è molto rischioso uscire in sala. Bisognerebbe poter contare su delle politiche specifiche per incentivare questo tipo di distribuzione, ma non sono per niente ottimista al riguardo. Poi, indubbiamente, dipende anche dalle preferenze del pubblico. Abbiamo provato a fare delle scelte molto decise con la Tucker Film, ma noi stessi avvertiamo il rischio, soprattutto in Italia, dove il pubblico non è ancora del tutto tornato nelle sale, per cui è un periodo davvero molto difficile.
Plan 75
Se è diventato sempre più difficile vedere questi film in sala, almeno, in questo, le piattaforme streaming possono essere utili per alcuni recuperi.
Sì, certo, anche se proprio adesso, nei cinema, c’è, distribuito dalla Tucker, Terra e polvere, un magnifico film cinese che ha avuto molto successo nella scorsa edizione del Festival. L’11 maggio, poi, usciremo con Plan 75 che presenteremo al Festival. Sarà una delle proiezioni imperdibili, il 26 aprile, avremo anche la protagonista Baisho Chieko, che riceverà un premio alla carriera. È uno sforzo non da poco portare, nell’arco di un mese, due film asiatici in sala in Italia.
Quali sono gli altri eventi imperdibili di questa 25a edizione? Le sorprese che più vi aspettate coinvolgeranno il pubblico?
Siamo molto fieri della nostra proposta di ben 78 film, ma, se dovessi puntare su alcuni eventi assolutamente imperdibili, allora direi la masterclass con Johnny To, la scoperta del primo lungometraggio di Hiroki Ryuichi, 800 Two-Lap Runners, e, in apertura, per la prima volta nella storia del festival, un film di Singapore, Ajoomma. Infine, uno dei film horror più belli che abbia mai selezionato, In My Mother’s Skin, che arriva dalle Filippine.
800 Two-Lap Runners