Daniele di Biasio è sceneggiatore, regista, per cinema e televisione, autore di documentari come “Pesci combattenti” (2002) e “Via dell’Esquilino”(2005), entrambi raccontano diversi spaccati della scuola italiana: il primo vaga sui banchi di scuola della periferia napoletana sulle orme del progetto ministeriale “Chance” che combatte la dispersione scolastica, nel secondo ci confrontiamo con una classe dell’Esquilino di emigrazione varia. E’ del 2008 il documentario “Soltanto un nome nei titoli di testa”, un viaggio commosso e asciutto dentro le pagine dello sceneggiatore Ugo Pirro, attraverso interviste e immagini di repertorio. L’ultima fatica è “Figli del deserto”, un lavoro sulla comunità Saharawi nei campi di Tindouf e sui suoi venti bambini scelti per un viaggio in Italia.
In “Pesci combattenti” e “Via dell’Esquilino” affronti la realtà della scuola vista da te che sei anche un insegnante. In questi lavori la scuola sembra vista come integrazione e/o come cartina tornasole dell’Italia. Tu cosa ne pensi?
“Pesci” è del 2001 e ancora non avevo esperienza di insegnamento. Inoltre faceva parte di un progetto speciale “Chance” che ha poco a che vedere con la scuola in genere. “Via dell’Esquilino” parla di una realtà più comune, di quanto gli studenti stranieri spesso siano più bravi, più motivati, meno influenzabili dalla televisione e di come spesso la scuola resta indietro ai cambiamenti della società, responsabile come è della preparazione della classe dirigente del futuro. Il progetto “Chance” si sta diffondendo in tutta Italia, in molte zone di disagio. E’ importante che ci sia una continuità di questi modelli scolastici.
Da un punto di vista tecnico come fai a renderti invisibile mentre giri in una scuola, per di più in contesti disagiati?
Arrivo mesi prima di girare e vago con la telecamera spenta fingendo di girare per abituarli alla mia presenza. Entri in un meccanismo e sei osservatore e parte in causa, chi ti vede ti accetta e si comporta chiaramente. Ma sopraggiunge la tensione quando arriva la troupe e l’asta del microfono. In “Via dell’Esquilino” si partiva da una diffidenza, dovevo entrare in empatia e partecipare attivamente, ma era una classe ben definita, quindi con primi piani ho voluto raccontare il loro “relativismo” attraverso la lingua, la scuola come luogo fisico, in “Pesci”la regia non poteva essere statica, dovevamo stare addosso ai ragazzi che scappavano per i corridoi.
Arriviamo ad Ugo Pirro, il tuo maestro e grande sceneggiatore. C’è un nesso tra il documentario su di lui e il resto della tua filmografia?
Quel documentario è un atto d’amore e di egoismo. Avevo superato l’aspetto burbero del suo carattere e siamo diventati amici dopo la scuola e abbiamo lavorato insieme. Volevo fare un documentario diverso, evitare di commemorarlo, per cui l’unico modo era raccontarlo attraverso la scrittura. Ugo era un vero e proprio grafomane, rigoroso e con una forte onestà intellettuale. Mi interessava far emergere la sua creatività, veggenza, il suo pensare per narrazione, e il suo amore per l’insegnamento. A settembre uscirà il dvd e poco tempo fa abbiamo presentato il documentario all’istituto di cultura di Parigi.
A giugno è stato presentato a Roma “Figli del deserto”. Hai concluso la trilogia sulla scuola?!
La scuola nel deserto era molto affascinate. Da un punto di vista umano e di inserimento ho avuto poco tempo per stare in Africa, e avevo già scelto i protagonisti del documentario, dei bambini meravigliosi. La difficoltà con la lingua è stata enorme, inoltre io non giro interviste ma racconto per scene. Con questo documentario volevo raccontare dei bambini africani non malati e disperati come la tv spesso fa, e soprattutto parlare della società che i Saharawi si sono costruiti nel nulla del deserto. Un’Africa diversa, insomma, dove è possibile guardare con gli occhi dei bambini cose per noi banali.
Natasha Ceci