Riders è un cortometraggio diretto da Andrea Russo e scritto insieme a Jonas Keller e Ludovica Spinozzi, prodotto da IFA – Scuola di Cinema di Pescara.
Un normale pacco consegnato da un rider si trasforma nella prima prova di un caso di omicidio. I protagonisti, una cliente, un poliziotto e un giornalista freelance, racconteranno a distanza di un anno gli eventi di quella notte. Attraverso le testimonianze dei tre differenti punti di vista, ripercorreremo le vicende di un caso all’apparenza insolubile, addentrandoci nel mistero che avvolge il lavoro dei rider.
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Andrea Russo
I fantasmi della città
Nella dedica e nella prefazione del saggio La situazione della classe operaia in Inghilterra, scritto da Friedrich Engels e pubblicato nel 1845, il filosofo tedesco anticipò il proprio intento di presentare un quadro fedele delle condizioni del proletariato, dopo aver vissuto a lungo fra gli operai e aver completato l’osservazione attraverso fonti autentiche. Desideroso di far giustizia a una classe oppressa e calunniata, sottolineava come le loro reali condizioni di vita fossero quasi completamente ignote. Come supposto in un editoriale pubblicato su Domani nel periodo della pandemia, se Engels fosse vivo oggi probabilmente andrebbe a vivere e si interesserebbe alle condizioni dei rider, una delle ultime diramazioni del consumismo, impostasi all’attenzione pubblica in particolar modo durante il lockdown.
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È proprio sul loro lavoro che si basa Riders, addentrandosi nel mondo di queste figure proliferanti, che popolano la città e le sue strade molto spesso sottopagati e senza tutele. Se il flâneur, nello scenario urbano, era descritto da Walter Benjamin come un prodotto della vita moderna e della rivoluzione industriale, l’evoluzione moderna del rider (e più in generale del corriere) lo è del capitalismo contemporaneo. Il cortometraggio diretto da Andrea Russo affronta questo tema mediante la struttura del thriller, con il racconto di macabre consegne di un rider e pacchi che al loro interno contengono terribili sorprese (riecheggiando il celebre finale di Seven).
L’approccio di genere coabita con le forme del mockumentary, con un occhio quindi sul reale e su un tema pregnante nella società odierna. Riders non aderisce però a un totale realismo (sull’onda ad esempio di Ken Loach e del suo ultimo film, Sorry We Missed You, che esplora le condizioni dei corrieri) ma si pone su un piano più teorico, rilevando, attraverso il caso e la sua difficile risoluzione, la totale spersonalizzazione dei rider. Nessuno dei testimoni si ricorda il volto o le caratteristiche fisiche del presunto colpevole e nemmeno l’immagine digitale (il video che stava girando il ragazzo) riesce a coglierne la presenza o l’identità. Vengono percepiti come “tutti uguali”, semplici ingranaggi ed estensione dei mezzi da loro usati, più che persone.
Ed è in questo modo che il cortometraggio riflette sulla perdita e frammentazione dell’immagine, associata al cubo di rubik, e delle caratteristiche identitarie, basando la narrazione sul racconto in prima persona dei tre protagonisti e quindi sulla (loro, ma anche di tutti noi) percezione. Un racconto che tende verso un’astrazione che si rivela sin dai titoli di testa, in cui compaiono le varie parti della bicicletta e l’equipaggiamento del rider, con la ruota del mezzo che gira incessante, ricordando (come avveniva all’inizio di Reazione a catena di Mario Bava) il movimento della roulette e un senso di imminente fatalità.
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