Ferite è il terzo lungometraggio di Vittorio Rifranti, nelle sale dal 29 marzo. Prodotto dalla svizzera Independent Movie Productions di Lugano, in co-produzione con Cactus Production e LimeLine, il film è la storia di Emanuele, un regista teatrale di mezza età, alla ricerca di un’attrice che possa incarnare la giovane protagonista del monologo che vuole mettere in scena tratto da un romanzo incompiuto di Dostoevskij. I due protagonisti sono interpretati da Daniele Marcheggiani e Camilla Tedeschi.
Di Ferite abbiamo parlato con il regista Vittorio Rifranti.
L’inizio in medias res e il silenzio assordante di Ferite di Vittorio Rifranti
Inizio un po’ come il film stesso, in medias res, con un cinema nel cinema e la proiezione su un muro di un filmato che sembra illudere. Illude perché pensiamo che si tratti della protagonista, salvo poi scoprire che invece questo serve a introdurre il protagonista. E poi non ci sono parole, ma solo suoni. Volevo chiederti qualcosa su questo inizio e su come è stato concepito. E poi sul peso e il valore che hai dato al silenzio che ritorna molto in questo film e che è quasi assordante.
La decisione di iniziare con quella scena e con quella ragazza per me nasce dal fatto che quella ragazza è l’origine di tutto. Delle donne che il protagonista, Emanuele, ha amato è la prima, è l’amore dell’adolescenza. E quindi tutto parte da lì, da un vecchio super 8 perché è qualcosa che potrebbe essere avvenuto nei primi anni ’80, quindi in un’epoca in cui ancora era plausibile che in casa si avesse una cinepresa del genere. Ed è l’inizio del suo rapporto ossessivo, malato con queste figure femminili. Quindi l’idea di iniziare da lei e da un filmato in super 8 nasce dal fatto che tutto inizia lì, come anche gli dirà il negoziante dal quale andrà a riparare il proiettore. Ecco perché ho deciso di iniziare così senza dare spiegazioni.
Cinema e teatro
Interessante è anche la commistione e continua compenetrazione tra cinema e teatro. Lui è un regista teatrale, ma ricorre al cinema con queste proiezioni personali a casa.
Sì, c’è questo legame. Proprio agli inizi, per pochi istanti, ho avuto l’idea di renderlo un regista di cinema, ma fin da subito mi è sembrato un terreno molto insidioso e non volevo che diventasse esplicitamente qualcosa che potesse alludere a una forma, ovviamente traslata, di autobiografia o comunque di vicinanza e quindi ho spostato il tutto facendolo diventare un regista teatrale.
Mi piaceva l’idea che lui, in quanto regista, potesse avere questo rapporto molto forte di prove ripetute con questa ragazza che conosce (e che è l’attrice che sceglie). E poi perché avevo voglia di mettere dentro questa storia un autore che amo molto che non era un autore teatrale, ma da cui Emanuele vuole trarre, da un romanzo incompiuto, un monologo teatrale e che è Dostoevskij.
Mi piaceva lavorare su quel romanzo lì e l’adattamento del testo l’ho scritto per il piacere di raccontare un personaggio femminile che poi è la protagonista del romanzo e ho preferito il teatro perché stabilisce tra regista e attore un rapporto molto forte, continuo, fatto di prove continue e ripetute rispetto al cinema, che io prediligo, ma che spesso lascia poco tempo per stabilire un rapporto veramente profondo e prolungato nel tempo tra un attore e un regista. Ultima cosa, ma non meno importante: mi piaceva l’idea del palcoscenico e avevo una gran voglia di filmare un palco e un teatro perché nel mio primo film avevo girato 2/3 scene proprio in un teatro, ma poi non avevo montato quelle scene nella storia e mi era sempre rimasta questa voglia di tornare dentro un teatro e filmare un palcoscenico.
Oltre a questo c’è da dire che anche Emanuele stesso sembra un personaggio teatrale.
È molto bello quello che dici, sono contento che sia arrivata questa cosa.
Ferite di Vittorio Rifranti: il rapporto tra i protagonisti
Sì, anche perché le scene a teatro, sul palco sono le più intense. Per esempio una di quelle che sicuramente rimane più impressa è quella nella quale Emanuele si approccia a Irene e ci anticipa che sarà lei la prescelta. C’è un contatto diretto fin da subito con lei. Mentre lei declama i versi lui le tocca il volto e la muove come a cercare la giusta inquadratura perché sa già che sarà una delle protagoniste del suo film. Quello che fa, però, va in una direzione e quello che dice in un’altra, come a non voler ammettere a sé stesso e agli altri le sue reali intenzioni. Si tratta di una scena molto forte, soprattutto a livello tematico perché si può leggere in più modi e sotto più punti di vista.
Mi fa piacere perché è una delle scene a cui tengo particolarmente. Tra tutte è quella che sento che è venuta come doveva essere. Anche perché quando fai qualcosa c’è sempre uno scarto. Quel momento lì è importante: il suo avvicinarsi a lei, spostarle il viso, guardarla, girarle attorno. Ma anche come lei guarda lui perché si stanno conoscendo come attrice e regista, ma anche come due persone. Questo è anche un po’ un modellare lui lei, ma anche un osservarsi a vicenda, un conoscersi, un guardarsi. Quindi mi fa piacere che ti abbia colpito la scena.
Rimanendo sul rapporto tra i due protagonisti vorrei soffermarmi sul cambiamento che questa conoscenza suscita soprattutto in lui. Dopo aver avuto a che fare sempre più direttamente con Irene, Emanuele inizia a cambiare e con lui mi ha colpito il fatto che cambia anche il modo con cui questo viene raccontato. Per esempio nel momento in cui lui guarda i video sulla parete inizia a farsi spazio nell’inquadratura (mentre prima non c’era) e viene accompagnato dalla musica (prima c’era il silenzio). Questo sembra indicare che lei ha rotto qualcosa anche se lui sembra ammettere il contrario.
Mi fa piacere che tu lo abbia notato. Questo cambiare il modo di rapportarsi alle immagini, dal momento in cui cresce questo rapporto con lei, è molto importante per me. Lo volevo inserire. Lei lo cambia a tal punto che lui, simbolicamente o no, va dall’altra parte della camera, a filmare sé stesso. Non può più ripetere con lei quello che aveva fatto con queste tre figure femminili del suo passato. Lei è qualcosa dopo la quale nulla può tornare come prima. Questo è quello che volevo esprimere anche nella modalità di visione delle immagini, ma anche nella necessità che lui sente di farle sapere quello che ha fatto. Quando lei gli rivela che ha scoperto la stanza lui non cerca minimamente di inventare o di nascondere qualcosa, ma forse non vede l’ora di dire a qualcuno quello che è accaduto. Quindi è un cambiamento forte quello che questa figura femminile, apparentemente fragile, ma in realtà molto forte, provoca in lui, nella sua vita, nei suoi ritmi, nel suo stile di vita.
La costruzione della storia
A un certo punto del film c’è una frase che mi ha colpita State costruendo la storia di una donna, frase che Emanuele dice alle papabili attrici per spiegare loro in che modo lavorare per il personaggio che andranno a costruire. In realtà anche lui sta costruendo e (ri)costruendo a suo modo la storia di una donna.
È interessante. Questa cosa che mi dici non era consapevole, ma la trovo interessante perché di fatto è vero che lui sta un po’ facendo questo, sta lavorando su un monologo che al centro ha una figura femminile (e anche questo non è secondario). Poi c’è l’incontro con Irene e anche quei gesti, a cui tu facevi riferimento, che lui fa, spostandole il viso, sono anche un po’ per costruire un personaggio, una figura, per modellare. Lui lo sta facendo dentro lo spettacolo, nella vita con Irene, in un certo senso, perché la sua vita è una storia di donne.
A tal proposito, aggiungo che ho girato, ma non ho montato, diverse scene con il suo assistente nelle quali chiacchieravano nelle pause di questo argomento. Da queste scene si evinceva che giravano voci riguardo Emanuele e il fatto che avesse avuto tantissime donne nella sua vita anche se poi lui ribadiva di averne amate pochissime (quelle della stanza). Questa parte, però, l’ho tolta perché mi piaceva che di Emanuele avessimo meno informazioni, non ci fosse troppo background. Addirittura mi piacerebbe che qualcuno potesse pensare che lui ha immaginato di aver ucciso queste donne. Ma noi non vediamo mai tracce reali di queste morti. Nessuno ha mai cercato perché deve rimanere una cosa sospesa. L’unica scena che vediamo è quando lui ha il coltello in mano, ma alla fine non fa nulla a Irene. Secondo me c’è più di una lettura possibile. Ma in generale ho preferito parlare della vita di un uomo, facendo un passo indietro rispetto a delle letture troppo esplicite.
Ferite di Vittorio Rifranti: i capitoli e il titolo
Un’altra osservazione che si può fare su questo film è che sembra quasi diviso in capitoli. Anche se non c’è una vera divisione, si potrebbe dire che le donne presenti e le immagini che vediamo sembrano quasi dei capitoli in cui è diviso il film. Ognuno ha il nome di una delle ragazze/donne che hanno riempito il passato di Emanuele. Hai costruito il film partendo da questo? Non so se è davvero una sorta di divisione o se è una mia interpretazione.
Sì, è così. Se fosse un romanzo e ci fossero dei capitoli prenderebbero il nome di queste donne, secondo me. E ci sarebbe anche un capitolo Emanuele che introdurrebbe. C’è una divisione un po’ letteraria, come struttura. In realtà c’è anche un’altra cosa che a me ha guidato molto: i filmati di ognuna delle tre ragazze sono realizzati con i supporti che presumibilmente si usavano quando sono stati realizzati. Quindi Roberta in super 8 perché siamo nei primi anni ’80; Emma una decina di anni dopo in vhs e Federica, l’ultima delle tre, in dvd ed è una cosa molto mia. Per me era importante che il sapore di quelle immagini (che fermano il tempo) fosse legato a quello che si usava tendenzialmente in casa negli anni in cui presumibilmente sono arrivate quelle donne nella sua vita. Tant’è che quando lui film Irene lo fa con un cellulare, con quello che oggi è il mezzo più immediato per filmare qualcosa di personale. Ma è stata una linea che ha guidato più che altro me.
Una domanda/riflessione sul titolo: come il film stesso, anche la parola stessa ferite si presta a vari significati. Da quelle fisiche a quelle più metaforiche. Alla fine quello che viene fuori è che ognuno di noi ha delle ferite e il film ci aiuta a riflettere proprio su questo. Com’è nata l’idea di questo titolo?
È un titolo che è nato subito quando ho cominciato a lavorare sul progetto. Quando penso alle ferite, io penso principalmente a quelle interiori (ed è una cosa che torna in alcuni dialoghi). C’è un momento in cui lei è in difficoltà all’inizio del monologo e lui gli dice di trovare le sue ferite. Poi si parla di ferite che lasciano tracce perché sono traumi del passato. E poi ci sono le ferite fisiche, che si è inferta Irene, nel momento di dolore massimo (farsi del male quando si sta male invece di difendersi da chi fa del male) e poi ci sono le ferite del coltello che forse Emanuele può aver usato per uccidere le donne passate. Quindi ferite è usato in senso metaforico e concreto. Per me la prima idea è quella di ferite interiori, poi ci sono anche quelle vere.
Forse è un titolo più letterario che cinematografico, ma mi sembrava l’unico possibile e poi è rimasto sempre quello.
Il cinema di Vittorio Rifranti per (e oltre) Ferite
Anche se il teatro è il terzo protagonista del film, è il cinema che ricorre continuamente con tanti espedienti in questo tuo film. Qual è il tuo cinema di riferimento in generale o per questo film?
Inevitabilmente le visioni nel corso degli anni lasciano delle tracce. Ci sono diversi autori che amo. I due che amo più di tutti, e di uno dei due c’è una traccia, sono Truffaut e Antonioni. Di Truffaut mi è sempre piaciuta l’emozione che provocano i suoi film e di Antonioni lo sguardo visivo che lui aveva. Quindi per me il film perfetto è quello che fonde uno sguardo potente a un’emozione molto forte. L’unione di loro due per me è una specie di alchimia.
Un film che sicuramente mi ha guidato sempre come riferimento altissimo e irraggiungibile è La camera verde di Truffaut dove si racconta di un uomo che in una stanza della sua casa ha un culto (quasi mistico) per tutte le persone che ha conosciuto e sono morte. Poi a un certo punto questa stanza prende fuoco e lui trova, all’interno di un cimitero, una cappella dove erige questo monumento.
Quando ho pensato alla stanza di Ferite sicuramente quella era una traccia che avevo abbastanza consapevole. Di solito quando faccio film non sono mai molto cosciente di quali possono essere state le influenze. Per me i miei film sono un po’ delle sedute di psicanalisi. In questo caso ammetto che c’era una traccia e una suggestione.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli