La purezza di sguardo del cinema di Jaco Van Dormael è qualcosa che incanta, come gli occhi dei bambini tante volte protagonisti dei suoi film. Fin dal suo primo lungometraggio, Toto le héros, anzi sin dal suo primo cortometraggio di finzione, È pericoloso sporgersi, la trasparenza onirica del suo cinema, il suo modo narrativo surreale e ironico ha creato una cifra stilistica inconfondibile, distillata nell’arco delle pochissime opere realizzate in quarant’anni di attività. Ogni film è come una domanda, sul destino che governa le nostre vite, sulla religione, l’infanzia, l’adolescenza, la senilità, la narrazione cinematografica stessa.
La superiorità dell’immaginario sul mondo reale costruisce, nel cinema di Jaco Van Dormael, personaggi ambigui, di cui si tenta di ricostruire la vita attraverso strati di passato persi nelle immagini di ricordi, in cui gli amori e gli affetti più veri sembrano quelli trascorsi o sprecati o non vissuti. Il vero si confonde con l’inventato, la memoria e il desiderio si mischiano per creare una possibile forma di realtà, in una dialettica di reminiscenze giustapposte che ricordano Quarto potere e il poetico, straniante montaggio dei piani temporali dei film di Alain Resnais.
Il cinema di Jaco Van Dormael è una sinestesia, una natura dipinta con colori brillanti in dissolvenza con la tradizione del realismo magico e del surrealismo belga, rielaborando la visionarietà misteriosa dei connazionali René Magritte e Paul Delvaux, per catturare gli aspetti invisibili di un mondo tanto abbagliante quanto oscuro e misterioso nel suo fato.
Il cinema di Jaco Van Dormael è un colorato e appassionante viaggio psicologico all’interno dei suoi personaggi, che confrontano, in una struttura a specchio, le loro ansie di perdita e i loro desideri di vita con i nostri, in una polifonia di esistenze e possibilità che riaprono i varchi, i bivi, di strade perdute delle nostre stesse vite.
Abbiamo incontrato Jaco Van Dormael al Bergamo Film Meeting, che ha presentato una retrospettiva completa di tutti i suoi lavori.
Ciò che è particolarmente affascinante nel tuo cinema è la trattazione del tempo e delle diverse possibilità che la vita può avere, a seconda che vada in una direzione o in un’altra.
Il cinema può presentare varie direzioni del tempo. Si possono fare narrazioni lineari. Questo accade sin dalle origini del cinema: puoi seguire la via dei Lumière, che fanno una cronaca documentaria, come l’arrivo di un treno in stazione o gli operai che escono da una fabbrica o la vita delle città. Oppure seguire la via del sogno, come fa Georges Méliès. Poi c’è una via di mezzo, quella che cerco di seguire io: non è la realtà, ma la percezione della realtà. Questa è diversa per ognuno di noi. A me piace raccontare nei film come procede la mente umana, che raccoglie le differenti percezioni, le elabora, le mischia con il passato, l’esperienza del nostro vissuto e l’aspettativa del futuro, costruendo quella che per noi è la realtà, ma che è una visione del tutto personale. Non la realtà, ma la nostra realtà. Il discorso sul tempo è analogo, perché non è mai lineare come ci illudiamo, ma esiste solo nel modo in cui noi lo percepiamo. Questo mi piace riflettere nel mio cinema.
Come nasce un tuo film?
Per me viene prima di tutto il processo di scrittura, che mi prende tantissimo tempo. Ci metto tanto a scrivere perché, ogni volta, mi sembra che la sceneggiatura non funzioni. Ogni mattina mi sembra che quello che ho scritto il giorno prima sia da buttare. Conservo non più del 10% di quello che scrivo. Senza una sceneggiatura scritta che funzioni non sarei capace di andare sul set. Toto le héros l’ho cominciato quando avevo 23 anni e l’ho finito a 30. La somma di tutta la sceneggiatura che avevo messo insieme arrivava a mille pagine, l’ho ridotta tra le cento e le centocinquanta. Normalmente, nello scrivere una sceneggiatura, faccio il contrario di quello che dovrebbe essere il processo, in cui si cerca di asciugare una storia per concentrarsi su una vicenda, io, invece, creo una specie di albero, una ramificazione, dove non è facile non perdersi.
Quali sono le qualità principali per diventare un regista?
A volte ci sono dei giovani cineasti che mi chiedono consigli su come diventare regista. La prima cosa che dico è che bisogna abituarsi all’idea di vivere con pochi soldi e che bisogna avere due qualità fondamentali: essere molto determinati e un po’ stupidi. Perché, se sei troppo intelligente, ti metti a pensare a tutti i problemi che verranno e non vai avanti. Quindi bisogna essere stupidi e, contemporaneamente, determinati per pensare di procedere in questo mestiere, soprattutto se si è lenti come me. Ci vogliono anni per fare un film, poi, magari, dopo tanti sacrifici, il film lo fai, esce e va anche male. Allora devi essere abbastanza stupido da pensare che, comunque, è stato bello farlo.
In tutti i suoi lungometraggi c’è la presenza di un attore con la sindrome di Down, Pascal Duquenne. Da dove nasce questa sensibilità fuori dal comune nel mettere in scena una disabilità solitamente rimossa dalla società?
Mi è capitato per caso di cominciare a lavorare con disabili e Down. Mi era stato commissionato un cortometraggio su questi ragazzi e lo sport. Fu veramente divertente vedere come loro cercavano d’interagire con la telecamera, si sono create tante situazioni buffe. Quando ho girato Toto le héros ho avuto la fortuna che sia stato un film di successo. Lì avevo messo un personaggio con la sindrome di Down e, quando fai un film di successo, soprattutto se il primo, hai più libertà per fare il secondo. Poiché mi ero trovato benissimo a girare con questi ragazzi, ho pensato di lavorare di nuovo con Pascal Duquenne nell’Ottavo giorno, di renderlo protagonista, questa volta. Ricordo che, finito il film, Pascal Duquenne è venuto da me e mi ha detto: qual è il prossimo che facciamo? Da allora ho continuato a creare parti per lui.
L’ottavo giorno
C’è qualche tuo film a cui sei più legato, per un motivo o l’altro?
Tutti i miei film mi piacciono. Forse il mio preferito è Mr. Nobody, perché è quello che è andato meno bene, quindi è come se fosse il figlio con più difficoltà per una madre e che ha bisogno di più amore.
Quali sono i tuoi registi di riferimento, i modelli del tuo mondo visivo e onirico?
Ci sono sicuramente stati molti registi che non ho mai conosciuto personalmente, ma che sono stati dei maestri, per me. Quando ho girato Toto le héros, avevo scritto inizialmente una storia su dei bambini, poi una che riguardava degli adulti e poi quella che parlava di un anziano. A un certo punto, mi sono reso conto che queste storie potevo intrecciarle e m’interessava particolarmente, da un punto di vista narrativo, il varco generazionale, il buco temporale che poteva congiungere queste età diverse. Parlandone con un amico, mi ha consigliato di ispirarmi ad Amarcord di Federico Fellini, tanto che poi ho modellato il mio film su quello. Anche se sembrano due pellicole diverse, sono due opere dalla struttura identica: anche in Amarcord ci sono tante piccole storie che s’incrociano in vari piani temporali, per arrivare a un finale che le accomuna. Per me, una struttura narrativa che riproduce la sovrapposizione dei piani temporali è fondamentale. È la cifra dei miei film. Io prediligo strutture non lineari che stimolano la comprensione dello spettatore su archi narrativi e temporali differenti. Un altro regista che mi ha influenzato, che posso sicuramente citare, è Andrej Tarkovskij, un autore che ho cercato di capire e di imitare tante volte, ma che non riesco a comprendere appieno, proprio perché ne ho un’ammirazione assoluta. A volte vedo un film di Tarkovskij e piango, ma non so perché. Lo specchio credo sia il film più bello che abbia mai visto. Un’altra cosa strana mi è successa con Stalker, un film che avevo visto una prima volta e non mi era piaciuto; la seconda, invece, anni dopo, mi ha entusiasmato, ma non era cambiato il film, ero cambiato io.
Non a caso hai citato due registi che lavorano tantissimo sul tempo, le emozioni, i ricordi, le trasformazioni che hanno nella nostra mente le metamorfosi del vissuto. Ti è mai capitato, invece, di rivedere un tuo film e di trovarlo, anni dopo, estraneo?
Con i miei film è diverso. Non c’è la visione distaccata che può esserci guardando il lavoro di un altro regista. I miei film sono pezzi di me, rimangono dentro di me. È come guardare la mia faccia allo specchio, sono sempre io, alla fine.
Toto le héros
Ci racconti qualche altra cosa del tuo primo film, Toto le héros? Un esordio folgorante.
Tante ottime opere prime passano inosservate, la mia ha avuto la fortuna di un certo successo. Ricordo con precisione un particolare. Quando scrivevo questo film, avevo sulla mia scrivania una frase del poeta Arthur Rimbaud, che aveva smesso di scrivere a 23 anni per diventare un commerciante di armi in Abissinia, dove perse anche una gamba. Lui scriveva che era molto più facile diventare quello che non si sarebbe mai voluti diventare e arrivare alla fine della vita senza nessuna speranza. Sono molto ottimista, lo so. Però, per fortuna, c’è la musica e quella gioiosa canzone di Charles Trenet, Boum, che fa da leit motif all’intera pellicola.
Ti racconto un altro dettaglio divertente su Toto le héros. Poiché era il mio primo film, nessuno mi conosceva e tutti gli agenti degli attori a cui chiedevo mi dicevano di no. Allora decisi di cominciare io stesso il casting, dal personaggio anziano. La mia prima scelta era Michel Bouquet. Ho preso l’elenco del telefono e ho trovato il suo numero. L’ho chiamato, lui mi ha risposto, mi sono timidamente presentato, gli ho parlato del progetto e gli ho chiesto se potevo mandargli per posta la sceneggiatura. Incredibilmente mi ha detto di sì e, tre giorni dopo, mi ha chiamato dicendo: facciamo il film. Dopo aver ingaggiato lui, fu più facile completare il cast. I bei tempi dell’elenco del telefono…
Mr. Nobody
Mr. Nobody mette in scena le diverse possibilità di una vita. Un progetto complesso di scrittura e montaggio.
L’intero film mi ha preso dieci anni e ho scritto, ogni giorno, per circa sei anni. Procedo molto per addizione. Quello che tento di fare con il mio cinema non è di rappresentare la realtà, ma i meccanismi del pensiero. Questo film è il tentativo di far convergere ciò che è divergente nella nostra vita. Mi domando spesso: perché la mia vita è diventata questa e non un’altra? Anche quando ti innamori non sai perché sia successo proprio con quella persona. Quando accade, puoi trovarti a immaginare come sarebbe stato con un’altra persona oppure, più semplicemente, vivere pienamente la tua storia. Per quanto riguarda il montaggio, ogni film ne ha, propriamente, tre: la scrittura della sceneggiatura, le riprese e il montaggio vero e proprio. Per me, però, esiste un quarto montaggio: quello che fa lo spettatore nella sua testa, come reagisce e cosa porta con sé.
In Dio esiste e vive a Bruxelles parli di religione e predestinazione (tra le molte altre cose).
In effetti è un film che dice che non sapremo mai la data della nostra morte, che non c’è nulla di predeterminato. È un po’ come la teoria del caos, dove tutto è possibile e niente è spiegabile. Io, sinceramente, non credo che ci sia una risposta alla domanda che cosa ci facciamo su questa terra. Tuttavia, è divertente esserci, molto divertente. Sulla religione, credo che le certezze siano pericolose, considerarsi gli unici ad avere le risposte giuste. Dio esiste e vive a Bruxelles non è tanto un film su Dio, quanto su un certo potere all’interno della religione, della famiglia, della politica, tra uomo e donna, quel potere che dice che devi obbedire a certe leggi e, se non lo fai, ci sarà una punizione. Il messaggio del film vuole essere che non ci sono regole, di scegliere una vita o un amore che non sia nel catalogo. Si ha più libertà di quella che crediamo di avere, se non ci costruiamo una piccola scatola dove stare, trasformandola nella nostra vita. Penso che le certezze che crediamo di avere su noi stessi siano ugualmente pericolose di quelle che le altre persone hanno su di noi.
Dio esiste e vive a Bruxelles
Qual è il tuo prossimo progetto?
Il mio prossimo progetto doveva essere pronto già tre anni fa, ma, come al solito, la lentezza mi ha colpito. Sto ancora scrivendo la sesta versione della sceneggiatura, ma ancora non funziona. È un film sui sogni. È difficile fare un film sui sogni, perché i sogni più belli non significano molto. A me piace parlare di cose che non hanno una risposta, una loro fine esatta. Nell’esperienza della vita, tante cose non hanno un senso, ma un film, al contrario, dovrebbe avere un inizio, uno sviluppo coerente e un finale che dia una direzione, uno sguardo complessivo. Riuscire a mettere insieme queste cose dentro un film, per me, tanto più sui sogni, non è per niente facile ed è il motivo per cui ci sto ancora lavorando.
I tuoi film sono estremamente curati dal punto di vista compositivo e visivo. Veramente l’opera di un artista che dipinge con le storie e con la luce.
Io non mi ritengo un artista. Sì, sono influenzato dalla pittura, mi piace, ma mi considero più un artigiano, uno che racconta delle storie che possono interessare sia me sia il pubblico. Poi, come dico spesso nelle interviste, fare un film è come buttare un messaggio in una bottiglia, non sai mai se qualcuno la troverà e se il messaggio verrà compreso.