Conversation
‘Diario di Spezie’ conversazione con Massimo Donati
Diario di spezie di Massimo Donati è un thriller ad alta tensione in cui il rigore visivo fa il paio con la bravura degli interpreti. Grande prova di Fabrizio Ferracane
Published
2 anni agoon
Dalle pagine del libro alle immagini del film, Diario di Spezie di Massimo Donati mantiene alta la tensione con il rigore delle immagini e la bravura di un cast internazionale capitanato da un grande Fabrizio Ferracane.
Diario di Spezie è distribuito da Master Five Cinematografica.
– Foto di copertina di: Pierluigi De Rubertis –
Massimo Donati e il suo Diario di Spezie
La particolarità della prima immagine ti serve per comunicare alcuni tratti salienti della storia. La villa di campagna nascosta dagli alberi che ne precedono l’entrata e poi la presenza di una voce di ignota appartenenza ci dicono dell’ambiente in cui si svolgerà la vicenda, ma anche di un tema, la reticenza, comune ai protagonisti del film.
Assolutamente sì. I grandi ci insegnano che le primissime inquadrature dovrebbero dire tanto. Il nostro intento era dunque di riuscire a comunicare su più livelli. Uno di questi è appunto l’ambientazione. Poi volevamo raccontare simbolicamente dell’arrivo del male.
Un male di cui quella prima scena dà una versione più metafisica che reale. Che poi è la dimensione che ne darà il vostro racconto.
Sono del tutto d’accordo. Noi volevamo comunicare plasticamente un’idea di male assoluto e metafisico. C’è servita più che altro per dargli una concretezza nel mondo reale. Quello di Diario di Spezie è un male pieno di sfaccettature, perché per esempio, entra nella dimensione temporale delle vite, con le colpe dei padri destinate a ricadere sui figli.
La sceneggiatura e il… male
A proposito di questo, nel confronto finale tra l’ispettore che gli dà la caccia e l’Oste, il cattivo interpretato da Fabrizio Ferracane, il male assume attraverso le parole di quest’ultimo una concretezza tanto essenziale quanto cruda come di rado mi era capitato di ascoltare in film come il tuo.
È un dialogo molto duro perché lì volevo rispondere al fatto di come una persona abituata a macchiarsi di terribili delitti riuscisse ad andare avanti, potendolo fare solo assumendo un atteggiamento di indifferenza di fronte a qualsiasi tipo di violenza. Nella scena in questione Andreas dimostra la sua totale assenza di empatia con gli esseri umani, quindi ho cercato una scrittura quasi scientifica, presente anche nel romanzo.
Tutto questo rispetto a una sceneggiatura stratificata in cui i dialoghi, pur raccontando il contingente dei personaggi, alludono sempre a qualcos’altro, lasciando spazio al simbolo e alla metafora, proprie di una dimensione assoluta e allo stesso tempo quasi astratta.
Cercavamo una forma che rendesse il film allo stesso tempo concreto e astratto. Una delle idee era di renderlo quasi atemporale, con questa scrittura che a un certo punto diventa alta anche nei dialoghi. A permetterlo erano, tra le altre cose, le professioni dei personaggi coinvolti. Andreas, in quanto restauratore di opere antiche, si può permettere di parlare così perché è una persona colta, frequentatore di ambienti dove si usa un certo linguaggio, in cui si conoscono bene determinate epoche storiche. Il salto qualitativo rispetto al linguaggio ordinario era giustificato dal suo ambiente lavorativo. Inoltre mi piaceva che la conoscenza tra Lucas e Andrea presupponesse un travaso di saperi. In Andreas Luca trova una figura carismatica e seducente, capace di colmare il vuoto lasciato dalla prematura scomparsa dei genitori.
Gli ambienti nel film di Massimo Donati
Peraltro il film è ambientato in una serie di non luoghi nella magnifica cornice di un paesaggio naturale, come spesso succede, bello ma indifferente. Il rapporto tra concretezza e astrazione deriva anche da quel tipo di ambiente.
Sì. Mi premeva raccontare un’upper class europea che non ha bisogno di apparire, di essere visibile e che dunque rimane un passo indietro. Ci riesce attraverso la frequentazione di non luoghi che sono al di fuori del percorso principale.
Che li fa vivere in una sorta di dimensione parallela.
Esatto. Penso, per esempio, al Barone Rampante di Italo Calvino che vive in questi mondi separati dalle vite comuni. D’accordo con scenografo e direttore della fotografia abbiamo utilizzato luoghi di solito adibiti ad altro trasformandoli in quello che ci serviva. Secondo me questi spostamenti trasmettono al film quella dimensione astratta di cui parlavamo. Una sala conferenze è diventata l’ufficio in cui Garand svolge le indagini. Abbiamo preso un forno per farla diventare una stanza circolare senza finestre utile a dare la sensazione di sprofondamento causato dall’aver dato un volto al fantasma a cui dà la caccia.
Massimo Donati Conversation Taxi drivers
Lo spostamento operato nella messinscena risulta mimetico rispetto a ciò di cui si parla nel film, ovvero di persone che incidono nell’esistenza altrui senza far sentire la loro presenza. Come il male che si camuffa e si confonde nella vita quotidiana. Peraltro il tuo metodo di regia assomiglia molto a quella del personaggio di Ferracane. Come quello, anche tu operi su una materia opaca per portarne alla luce l’anima, separandola dal superfluo.
Le due cose dovevano andare parallele perché il film scolpisce delle immagini che sono la visione di quella vicenda. C’è questo svelamento graduale che non è tanto incentrato sul chi è o chi non è ma che cosa c’è dietro la relazione tra Luca e Andreas, che poi è la domanda del film.
Massimo Donati: dal libro al film
Tu hai scritto prima il libro e poi hai girato il film. Mi chiedevo se nel momento della stesura del romanzo avessi già in mente di realizzarne un lungometraggio e se quindi il romanzo stesso fosse stato scritto per immagini?
Sì perché la storia è nata per farne un film. La sceneggiatura aveva vinto molti anni fa il Premio Solinas. Essendo molto giovane e sapendo che difficilmente me l’avrebbero fatta girare ho pensato ci fosse la possibilità di realizzarne un buon romanzo. Quindi avevo già in mente una struttura cinematografica anche in termini di immagini. Se uno guarda la scrittura del romanzo, essa risulta molto scabra e piena di immagini. Mi ero dato la regola di non raccontare i pensieri dei personaggi. Era un limite molto duro, ma volevo che tutto emergesse dai gesti, dalle situazioni, dalle azioni, dall’atteggiamento reciproco dei protagonisti. Volevo che ogni cosa venisse fuori a livelli attraverso il non detto. Se ci pensi questo è un tipo di linguaggio prettamente cinematografico.
Come fa molto cinema americano, quello di far conoscere il personaggio attraverso l’azione e non la psicologia.
Assolutamente. Io vengo da quel tipo di scuola che, per quanto riguarda la direzione della recitazione, si ispira a maestri ideali che sono quelli della scuola russa da cui il cinema americano ha attinto per poi allontanarsene. I miei personaggi non sono burattini che fanno delle cose, ma sono portatori di senso. Anche per questo la recitazione era importante. Con gli attori abbiamo lavorato molto prima di andare sul set e poi anche a margine delle riprese. Tutti si sono prestati con grande disponibilità a stare con me anche fuori orario di lavoro per arrivare sempre convinti e lucidi su quello che volevamo.
I personaggi
Se uno dei filoni narrativi è relativo alla contaminazione del male, la scena del bosco con il delitto che si compie è assemblata per dare risalto proprio al momento in cui questo si impossessa di Luca, macchiandolo per sempre. I corpi dei protagonisti diventano qualcosa di astratto, quello del ragazzo mangiato dal buio, quello di Andreas mancante, riassunto per intero dalla sua faccia.
Anche perché il bosco è ancestralmente il luogo delle favole dove si compie il dramma, con il lupo cattivo e Hansel e Gretel che si perdono nel bosco. Lì lo spettatore si doveva perdere con Luca.
Come dicevo, di Ferracane fai vedere solo la testa e, nel contesto della scena, la sua presenza risulta meno reale e più metafisica.
Sì perché in quel momento lo spettatore doveva perdersi con Luca, per poi chiedersi “E ora cosa succede?”. Per certi aspetti quella è la scena dello svelamento perché da lì il piano di Andreas comincia a concretizzarsi. Lo vediamo dal godimento con cui si permette di sgridare Luca, ma sono anche la premessa al piano di Andreas.
I movimenti di macchina
Diario di Spezie è girato con pochi movimenti di macchina e per lo più con inquadrature fisse. Questo ti permette di trasmettere l’ineluttabilità del male e dunque la costrizione di perseguirlo da parte dei personaggi. Da questo punto di vista è come se la cornice dell’inquadratura imprigionasse i personaggi al suo interno, rendendo visibile il loro stato d’animo.
Tra l’altro buona parte delle inquadrature sono state fatte all’interno della macchina e quindi dentro una spazio molto ristretto con l’obiettivo di creare una dimensione sempre più claustrofobica. I movimenti di macchina regalano leggerezza, danno alla storia un respiro più ampio derivato dalla presenza del paesaggio oltre che un certo stile dal punto di vista estetico. Rinunciarvi a favore di una certa fissità ha rafforzato il senso, però, da un punto di vista del senso, c’è sicuramente della storia. Ci sono due, tre inquadrature, verso la fine, quando Luca ha già iniziato il suo percorso verso l’abisso che sono proprio pensate come una gabbia, come un acquario. Mi riferisco a quella negli uffici del museo, con la vetrata che ci permette di vedere l’edificio in sezione, e dunque a suggerire l’idea di una prigione, di una gabbia. L’ho filmata con un breve piano sequenza in cui l’azione inizia e si conclude all’insegna di quella staticità di cui si parlava.
Fabrizio Ferracane
Diario di spezie deve molto alla performance degli attori e in particolare a quella di Ferracane alle prese con un ruolo in cui doveva parlare diverse lingue. A lui hai offerto un ruolo mefistofelico diverso da quelli interpretati in precedenza, ovvero senza esagerazioni e molto asciutto. Questo gli permette di lavorare più sulle sfumature che sulla maschera.
Fabrizio è una persona di grandissimo talento e di grande dedizione al lavoro. Abbiamo iniziato a costruire il personaggio mesi prima, vedendoci da remoto e parlando del film, raccontandocelo scena per scena. Sono molto meticoloso, quindi fin dalle prime volte abbiamo puntato su un lavoro che prevedeva l’analisi delle singole battute per capire come dovevano essere dette. Per chi fa teatro è abbastanza naturale: è quello che si chiama il tavolino. Da lì abbiamo cominciato a costruire la lingua che abbiamo pensato sporca perché volevamo costruire un personaggio poco intercettabile dal punto di vista della sua provenienza. La mescolanza delle lingue doveva essere per certi aspetti naturale, con lui capace di parlarle bene tutte, ma nessuna in modo perfetto. Questo c’è servito anche a togliergli la sicilianità che caratterizza molti dei suoi personaggi, aggiungendo un elemento linguistico altrettanto caratterizzato. Abbiamo lavorato sulla pronuncia delle singole battute e devo dire che, secondo me, Fabrizio ha portato a casa un’interpretazione di altissimo livello. Ha studiato tanto, facendosi aiutare da una madrelingua francese per prendere le sfumature e anche tutte quelle interruzioni del flusso della parola che si sentono e che caratterizzano il suo modo di interpretare Andreas. Simmetricamente Lorenzo Richelmy ha lavorato a un personaggio più stilizzato, controbilanciando la timidezza di Luca, e dunque il suo essere meno appariscente, con una serie di caratterizzazioni molto accurate: si è focalizzato sulle posture, sul modo di camminare, sui tic, sui gesti e, come per Ferracane, ho apprezzato tantissimo la sua dedizione nel cercare, su mia indicazione, un accento veneto appena percepibile, non calcato, né macchiettistico. Sfumatura, questa, che aggiunge carattere al personaggio e che secondo me Lorenzo è riuscito a portare in modo molto credibile sullo schermo.
Riferimenti e richiami al cinema per Massimo Donati
L’ultima scena mi pare un omaggio a Seven di David Fincher in un contesto generale che guarda molto a certo cinema americano.
Le citazioni di un certo tipo di cinema americano sono moltissime: da Fincher a Nolan e molti altri. Ci sono L’imbalsamatore di Matteo Garrone che tanti anni fa mi ha folgorato. Ci sono, ed erano chiari nella mia testa, piccoli omaggi a dei grandi che in qualche maniera mi hanno consentito di amare il cinema. Autori capaci di spingere il genere fuori dai suoi cliché per aggiungervi elementi provenienti da altre forme di cinema.
Possiamo fare qualche nome?
Oltre a quelli già citati ci sono David O. Russell che trovo grandissimo, ma anche Denis Villeneuve. Sicario è un film lontano dalla mia sensibilità però è molto importante. Paul Thomas Anderson e altri. Il legame del mio film con la lingua francese mi ha fatto pensare a Melville e quindi al polar francese anni sessanta e settanta con Alain Delon al massimo della sua bellezza e capacità recitativa. Mi riferisco a Frank Costello faccia d’angelo in cui mi sono ritrovato per certe astrazioni visive in cui i personaggi sono da soli, come nella scena del fiume secco. Parlo di situazioni dove il dialogo tracima nella violenza. Sono cose che mi hanno influenzato e che nel definire lo stile del film sono venute fuori in maniera naturale.