Al cinema il bel film di Umberto Spinazzola è uscito nella prima metà di febbraio. Probabilmente non con la capillarità e – volendo – la tenitura che avrebbe auspicato chiunque, speriamo siano stati in tanti, ne abbia gradito l’originalità, la profondità di certi discorsi, la sensibilità nel tratteggiare i personaggi.
Dopo esserci imbattuti quasi per caso in tale visione, abbiamo avuto modo di ripensare a Non morirò di fame proprio durante la quarantunesima edizione di Bergamo Film Meeting, allorché il grande attore e cineasta polacco si è prestato a conversare qualche minuto con noi su tale lungometraggio (non presente peraltro nella rassegna), in cui interpreta un ruolo magari piccolo, ma assai significativo. Prima di soffermarci sul carattere così amabile e rinfrancante dell’incontro bergamasco, però, proviamo a sintetizzare i punti di forza di un’opera cinematografica che ci ha tanto piacevolmente intrattenuto, fin quasi ad ammaliarci.

Il film Non morirò di fame: un vorticoso intrecciarsi di temi e situazioni dall’impronta emotivamente forte
Co-produzione italo-canadese, in cui ha messo lo zampino anche Rai Cinema, il film Non morirò di fame ha come epicentro narrativo la volontà di riscatto di un personaggio che, per troppo tempo, si è lasciato andare, finendo così ai margini della società: Pier (ossia l’ottimo Michele Di Mauro), ex chef stellato destinato a ritrovare il suo amore per la cucina attraverso un incontro alquanto casuale con la pratica del recupero alimentare, da cui elaborerà strada facendo una serie di sorprendenti ricette con l’apporto di ingredienti ri-utilizzati e salvati così dallo spreco. Ma a fornirgli l’ispirazione, conseguentemente a un evento luttuoso in famiglia, è anche l’inizialmente difficile ma poi così rinfrancante tentativo di recuperare quel rapporto padre-figlia (una vera e propria rivelazione, qui, l’esordiente Chiara Merulla) un tempo sentito in profondità da entrambi, ma complicatosi enormemente con la crisi professionale e la successiva fuga dell’uomo.
Alleato generoso e fedele, in questo emozionante percorso, si rivelerà l’anziano clochard dai modi eccentrici, raffinati, che si fa chiamare Granata (interpretato per l’appunto da Jerzy Stuhr, già attore feticcio di Andrzej Wajda, Krysztof Zanussi e Krysztof Kieślowski, nonché ispirato cineasta a sua volta), il quale non soltanto lo aiuterà a riscoprire il suo talento in cucina, ma saprà aprirgli gli orizzonti di un mondo solidale in cui il cibo non va sprecato, bensì condiviso con le persone care. Come la figlia Anna e il suo amichetto del cuore, per esempio.

Cinema & cibo
Notevole è la sincerità con cui ci si accosta a siffatte dinamiche interpersonali. E da ciò si sviluppano temi universali approcciati con altrettanta grazia: l’elaborazione del lutto, su tutti.
Ma a diventare memorabile e oltremodo calzante metafora del senso della vita è soprattutto la cucina, la preparazione del cibo. Su tale aspetto si potrebbe impostare un capitolo intero di Storia del Cinema. E di citazioni più o meno celebri se ne potrebbero fare a iosa. Immumerevoli le possibili declinazioni dell’argomento, dal recentissimo, orrorifico The Menu di Mark Mylod a grandi classici come Il pranzo di Babette, diretto da Gabriel Axel e tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen, passando naturalmente per tanto, tanto cinema orientale, con una punta di preferenza, da parte nostra, per l’immaginifico The God of Cookery di Stephen Chow e Lee Lik-chi. Comunque la si metta, la rappresentazione stessa delle portate ha assunto in svariati casi un appeal cinematografico invidiabile.
Altrettanto affascinati si resta di fronte alle fantasie gastronomiche dello chef Pier, corredate all’occorrenza da qualche sorniona e folgorante riflessione del buon Granata sul senso della vita: momenti davvero iconici, questi, di un film, quello di Spinazzola, che punta al cuore, alla mente… e volendo anche alla gola.

Angelo Signorelli con Jerzy Stuhr
Il punto di vista del grande, amatissimo Jerzy Stuhr
Detto questo, nel recente incontro col pubblico svoltosi a Bergamo, noialtri di Taxi Drivers abbiamo voluto interpellare Jerzy Stuhr, il quale aveva da poco concluso un intervento sul suo modo di affrontare non soltanto parti da protagonista ma anche piccoli ruoli, proprio su questa esperienza, sollecitando sia qualche ricordo del vivace set torinese che una sua riflessione sulla filosofia di vita del personaggio in questione.
La sua risposta entusiasta ci è piaciuta davvero tanto, per cui proviamo a sintetizzarla in poche righe, quale chiosa ideale del nostro excursus su Non morirò di fame:
“Vi erano almeno un paio di cose importanti in questo personaggio. Intanto mi piacerebbe nella vita essere libero da tutto, rassegnato magari a occuparmi solo del cibo, e non della vita. Per me vi è una grande speranza in tale personaggio. In questo ruolo mi sono sentito veramente liberato da tutto, dalla necessità di farmi la barba, dalle pressioni dell’ambiente, eccetera eccetera. Solo non avere fame: questa, l’ultima cosa. Bellissimo! Non sono mai così, nella mia vita reale, però nella mia immaginazione questo ruolo ha fatto sì che tutto ciò si realizzasse: a partire dal non dovermi fare la barba! E così sono rassegnato, ma allegro. Era bello!
Ricordo che noi abbiamo girato a Torino, in pieno centro. I nostri mezzi non potevano entrare nelle strette stradine torinesi, allora la produzione ci ha regalato nelle pause la possibilità di fare sosta in qualche bar, in qualche caffè. E io interpretavo un clochard, per cui vedendomi lì arrivavano i camerieri per dirmi: «Va via, va via per cortesia!». E io allora: «No, io sono attore del film». Ma loro: «No, va via! Va via!» Era bellissimo. Finalmente libero da tutto, con questi camerieri che mi cacciavano dal loro caffè, vedendomi con una barba lunga così.
Bello, molto bello, anche questa idea di trovare il cibo. Quando quei prodotti vengono portati fuori dai supermercati, era per me affascinante vedere per la prima volta in vita mia quanto cibo viene sprecato. Bel lavoro sul set, sì, ma anche difficile, strano, essendo le riprese di notte a Torino in pieno inverno. Eh, difficilissimo!”