Regia, sceneggiatura, interpreti. L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano è un film senza punti deboli, avamposto di un cinema d’autore cosciente della propria forza. Distribuito da Vision Distribution, L’ultima notte di Amore è attualmente al secondo posto del box office italiano. Del film abbiamo parlato con il suo autore.
L’ultima notte di Amore è il film di Andrea Di Stefano presentato alla Berlinale 2023.

La prima scena de L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano
Volevo partire dalla panoramica d’apertura di cui tanto si parla in questi giorni. Lo si fa, non solo per bellezza e significati, ma anche perché nel nostro cinema contemporaneo rappresenta qualcosa di inedito.
Era in sceneggiatura e l’ho sempre immaginata come l’inizio di un film in cui volevo presentare il “corpo” della città, con la pelle attraversata dalla venatura delle sue mille strade. Mi interessava partire dal totale della città per poi andare in periferia: infilarmi in uno dei suoi quartieri, passarne in rassegna i palazzi, per poi sceglierne uno in cui fermarmi a guardare una delle sue finestre.
A me ha ricordato la sequenza con cui inizia Changeling di Clint Eastwood. I movimenti di macchina sono gli stessi e, anche lì, il passaggio dal totale al particolare sottintende una collocazione periferica che appartiene tanto alla geografia della città quanto alla condizione dei personaggi. Quella di Franco e Viviana è solo una delle tante storie di cui ogni città è piena.
Esattamente quella. Hai colto bene il senso di ciò che mi interessava dire, e cioè che, tra le tante storie di Milano, quella raccontata parte da ciò che si nasconde dietro la festa in corso all’interno della casa. La mdp lo fa entrando un poco alla volta nella vita di Franco Amore e di sua moglie Viviana.
La sequenza esprime anche la poetica visuale del film, in cui la costante ricerca dello spazio traduce la volontà di immergere lo spettatore nello stesso tempo esistenziale dei protagonisti.
Quando possibile mi piace girare permettendo allo spettatore di condividere il punto di vista del protagonista. Non faccio film a tesi, però cerco di rendermi conto quando posso sfruttare al meglio lo sguardo dei personaggi. In questo caso avevamo un protagonista come Franco che ne aveva addirittura due quando a un certo punto si ritrova a recitare la parte dell’innocente pur essendo in qualche modo colpevole. Questo ha comportato un modo di filmare più complesso, ma capace di rendere al meglio la discesa agli inferi del personaggio. Anche perché, una volta arrivati sulla scena del crimine, tu sai che Franco è dentro a un tunnel anche sotto il profilo emotivo. A trasmettercelo è il contrasto tra le luci gialle della galleria e il buio della notte, ma anche i flash blu e rossi sparati sul volto del poliziotto mi servivano per segnalare l’accumulo di emozioni all’interno di immagini di stampo onirico. Il cinema è capace di cogliere tutte queste sfumature e di moltiplicarne il potenziale.

Suoni e rumori
La metropoli in quanto corpo è resa anche in termini di suoni e rumori. A questi tu dai la forma di un respiro ansimante e di un minaccioso stridio metallico simile a quello prodotto dalla lama di un coltello. Nella sequenza iniziale l’incalzare di questi due elementi diventa una sorta di musica rap, ovvero di quel linguaggio di strada di cui parla Franco a Viviana.
Alla notte milanese ho provato a dare un’identità precisa. Non di chi la vive per andare a stappare bottiglie nei locali, ma di quelli che sono chiamati a proteggerla. Ho intervistato diversi agenti di polizia che lavorano di notte e che ogni volta, prima di entrare in servizio, si mettono la pistola nella fondina facendosi il segno della croce. Ascoltandone i racconti sentivi che non vivevano la città come un posto di lavoro, ma in quanto cosa viva. Dei suoi pericoli quei poliziotti conoscevano sfaccettature e meandri ed erano in grado di mappare la città non solo dal punto di visto geografico, ma anche umano, suddividendola tra amici e nemici. Della criminalità conoscono anche il lato onesto, per cui i respiri inseriti nella panoramica volevano essere il segno di una città polimorfa. Ciò che ti raccontano non ha niente a che fare con quello che vedi nelle serie televisive, così quando negli Stati Uniti mi sono trovato a parlare con gli agenti dell’FBI mi sono sentito come succede a Viviana nel film, ovvero spiazzata da quello che a un certo punto il marito è costretto a raccontarle per cercare di proteggerla.
Come spettatore ebbi la stessa sensazione guardando Il Braccio violento della legge di William Friedkin. Quel film ti metteva per la prima volta di fronte a un realtà diversa dalla narrativa precedente.
Sì, assolutamente. L’agente di polizia con cui ho lavorato in America per Traffic e Sicario mi ha fatto capire la qualità delle storie ricavate da testimonianze realistiche, frutto di un’esperienza vissuta in prima persona. Quando succede il pubblico se ne accorge subito, avendo la sensazione di osservare dal buco della serratura qualcosa che sta accadendo per davvero.
La scena finale ti permette di chiudere il conto con quella iniziale, nel senso che, attraverso il discorso di commiato del protagonista, restituisci alla città ciò che essa ti aveva regalato, ovvero la storia di un poliziotto e del suo ultimo giorno di servizio.
Ho fatto salti mortale per poter riprendere lo spegnimento delle luci del Duomo che mi servivano per sancire la fine della notte e con essa dare significato al messaggio con cui i poliziotti comunicano la fine del proprio servizio. Nel mio caso quest’ultimo coincideva con il discorso di commiato di Franco, che secondo me era la copertina del “libro” più giusta, con lui che parla a una città pronta a rispondergli attraverso il suono delle sirene accese dai poliziotti. Finire su quella nota mi sembrava interessante.

Il film di Andrea Di Stefano in bilico tra cinema e realtà
Il tuo noir pone l’accento su un quotidiano privo di quell’alone di maledettismo presente in molti prodotti americani. Franco e Viviana sono un marito e una moglie che, come molti, faticano a far quadrare i conti della spesa. E se Franco non è il tipico poliziotto bello e dannato, così Viviana non è la dark lady delle storie criminali. Detto questo L’ultima notte di Amore riesce a stare in bilico tra la straordinarietà propria del racconto cinematografico e la normalità della vita quotidiana.
La mia fortuna è stata di poter contare su un patrimonio cinematografico, il nostro, stratificato sia in termini di generi che di interpretazioni. Nel film talune scene e dinamiche sono prettamente italiane, con gli attori pronti ad attingere dalla recitazione dei grandi come Sordi, Gassman, la Mangano e la Vitti, i quali portavano in scena momenti allo stesso modo divertenti e drammatici. Scimmiottare Melville nella Milano di oggi mi è sembrato fin da subito assurdo, per cui mi sono fatto coraggio e con una buona dose di incoscienza ho tentato di realizzare un unicum, mescolando la commedia all’italiana alla trazione dei nostri film di genere che, se ti ricordi, erano spesso molto seriosi e per lo più orientati verso uno stile internazionale. Penso comunque che i tempi erano maturi per poterlo fare. Di certo è stato interessante guardare Pierfrancesco Favino e Linda Caridi approfondire certi aspetti del quotidiano, dunque assistere al modo di vivere e alle discussioni dei loro personaggi. Ho lasciato che le cose andassero così, sperando che il passaggio dalla realtà alla crime story avvenisse in maniera organica.

L’intesa tra marito e moglie
Ne L’ultima notte di Amore i passaggi dedicati al quotidiano di Franco e Viviana fanno venire in mente certa commedia all’italiana. Penso allo scambio di battute in ascensore e poi al pranzo presso la famiglia cinese, con lei desiderosa di far assaggiare al padrone di casa la parmigiana appena fatta. In quell’occasione l’intesa tra marito e moglie non è solo l’espediente per superare le timidezze e gli imbarazzi tipici di certe situazioni, ma anche la premessa di un affiatamento che più tardi si trasformerà in soccorso reciproco.
Io ho raccontato cose che mi erano vicine. Quando sono in Italia mi capita spesso di osservare i miei amici quando sono invitati a pranzo. Come Franco e Viviana anche loro provano a vestirsi il meglio possibile e, se possono, cercano di portare qualcosa da mangiare. Lo fanno perché come i miei protagonisti sono persone adorabili. Viviana è una forza della natura. La simpatia dimostrata con Bao Zhang così come con il cinese incontrato nel terrazzo è parte di una personalità pronta a combattere per dare speranza alle persone che ama. Più che crearli, Franco e Viviana sono il modo molto semplice con cui ho provato a raccontare quello che emozionava e cioè che loro due sono come la maggior parte degli italiani. Vivendo all’estero è come se dentro questa coppia avessi voluto mettere tutto quello che mi piace del mio paese.

La città e il flashback
Sappiamo della capacità del cinema di genere di saper leggere la contemporaneità. In un momento in cui il dibattito sull’immigrazione è oggetto di scontro politico L’ultima notte di Amore racconta una Milano diversa dal racconto ufficiale, in cui i figli degli immigrati italiani si ritrovano in qualche modo a dipendere dai nuovi arrivati.
Ho provato a guardarla nel modo che mi sembrava più interessante. E poi sono molto contento del fatto che comunque i cinesi, come tu hai visto nella sceneggiatura, sono una falsa pista, nel senso che volevo giocare un po’ con i nostri preconcetti. Bao Zhang è definito come il boss della sua famiglia poi, però, nel concreto non fa altro che proteggere la propria attività lavorativa da chi, carabinieri corrotti e ‘ndranghetisti, vorrebbe portargliela via. Quando Franco gli dice “Io non porto droga” quello gli risponde “guardi, sono venticinque anni che lavoriamo onestamente in Italia e non ho mai avuto problemi con la legge”.
Dopodiché se uno osservasse con più attenzione vedrebbe che anche loro, come noi, si ritrovano ogni domenica in famiglia, più generazioni nella stessa casa pronte a passare insieme il giorno di festa. I cinesi di oggi sono gli italiani di ieri, costretti a lavorare venti ore al giorno, esattamente come facevano i nostri avi una volta arrivati in America, in Germania o in Belgio. Anche loro fanno tutto il possibile per garantire un futuro ai loro figli in una realtà che gli è ostile.
Come vuole il noir costruisci una parte della storia attraverso un lungo flashback che finisce per cambiare il significato di quello che abbiamo visto in precedenza. Una bugia che fa il paio con quella patita da Franco che a un certo punto scopre di essere stato tradito da chi reputava amico.
Cerco sempre di individuare un punto in cui l’arco narrativo è all’apice del conflitto. Così la festa a sorpresa per celebrare l’ultimo giorno di servizio di Franco coincide con la vista dell’amico morente. Secondo me quello era un crocevia interessante. In più mi piaceva presentare l’inizio del film come un’operetta destinata a diventare opera: come se l’apertura fosse quasi il negativo della fotografia; allo stesso modo in cui lo è la mia città, lontana dalla metropoli della finanza, della moda, del calcio. La Milano che racconto è il negativo di quella dell’ambizione e della ricchezza.

La sequenza centrale raccontata da Andrea Di Stefano
Parliamo della sequenza che dall’aeroporto ci porta all’interno del tunnel in cui avviene la sparatoria. La tensione interna al racconto corrisponde all’organizzazione delle riprese in cui scegli di mettere a confronto la continuità dei piani sequenza all’interno della macchina con la progressiva frammentazione dell’immagine in cui il senso di costrizione vissuto dai protagonisti è reso dal vederli ripresi in parte all’interno dello specchietto retrovisore, oppure trasfigurati dal gioco di luci interne ed esterne al tunnel.
Di solito muovo la macchina da presa quando l’emozione me lo consente, cioè quando questa si crea nel pensiero del protagonista. Nell’attimo in cui Franco scorge dallo specchietto retrovisore l’Alfa Romeo bianca la tensione comincia a salire. Sapevo di dovermi creare dei gradini per rendere credibile il colpo di pistola sparato dall’interno della macchina. Mi ero messo in testa delle scene che poi sono andato a girare sapendo esattamente quello che mi serviva per creare quell’effetto. Sapevo che avevo delle limitazioni. Abbiamo rubato quelle scene in autostrada e in tangenziale sapendo che la mdp non poteva stare fuori. Ho fatto prendere due macchine dello stesso modello e mentre giravo ho smontato i sedili e piazzato le mdp al loro posto per poter fare quelle panoramiche all’interno dell’abitacolo. In particolare ho levato i due sedili dal lato passeggero e ho fatto un carrello all’interno della macchina nel momento in cui si buca la ruota. Quando la motocicletta sorpassa l’automobile ho fatto un carrello in avanzamento dai sedili posteriori fino allo specchietto retrovisore che mi serviva per comprimere gli occhi di Franco. Prima della panoramica torniamo sul suo profilo che guarda lo specchietto retrovisore e dice all’amico di cantare la canzone. Subito dopo arriva la motocicletta, lui la nota e cominciano i guai. A quel punto sapevo che era molto importante raccontare il mondo esterno secondo il suo punto di vista, da qui la decisione di riprenderlo attraverso lo specchietto laterale e retrovisore. C’era poi questa linea narrativa tra il davanti e il dietro del veicolo, quando a un certo punto vediamo uno strano movimento. La guardia cinese Chun Ba si sistema la pistola e noi lo capiamo dal sospiro della ragazza che sembra dire: “cazzo! le cose si stanno mettendo male”. Ma quello che fa veramente la differenza è il dialogo tra Franco Amore e il carabiniere. È stato scritto e riscritto, letto e riletto da diversi agenti, per cui tutta la drammaturgia è basata su questo modo crudo e diretto che loro hanno di parlare l’uno all’altro. Secondo me questo si sente e anche in modo sorprendente. Io non avrei mai avuto l’abilità di scriverlo così. Quando Franco gli dice “Che dobbiamo fare, dobbiamo fare la guerra? Guarda che anche noi siamo armati”, suona così vero da far sentire tutta la tensione di quel momento.
Nella gestione della scena del crimine è come se mettessi in scena una micro città, alternativa a quella ufficiale. A colpirmi è stata la gestione dello spazio, con la dialettica tra il dentro e il fuori del tunnel, e poi l’incalzare del tempo, suddiviso tra quello di Franco e l’altro, relativo all’entrata in scena di Viviana.
Scrivendo le sceneggiature dei miei film riesco a sfruttare al meglio le location. Di quella di cui parli me ne sono innamorato subito. Sapevo che il ponte poteva darmi grandi possibilità per cui nella fase di riscrittura abbiamo cercato di capire come fare di quella un luogo dove poter giostrare tutte le emozioni nella maniera più interessante. A me piace molto raccontare i punti di fuga, ciò che sta dietro le facce degli attori e che di solito appare sfocato. Per quello giro il più possibile in lenti anamorfiche. Mi piace il loro effetto distorsivo. Il film è in parte in anamorfico, in parte in sferico, però cercavo questi punti di fuga, con lo sfondo che cambiava come se la realtà della situazione stesse sfuggendo dalle mani di Franco. Volevo far vedere la sua incapacità di mettere a fuoco quello che stava succedendo accanto a lui.

L’ambiente
Il film prende in considerazione l’ambiente familiare in maniera diversa dal solito, ovvero non come rifugio consolatorio ma componente essenziale dell’azione. Un campo, questo, di solito ad appannaggio esclusivo della controparte maschile.
Soprattutto è qualcosa che non si vede mai nei film, e in quello ne sento la mancanza: di personaggi femminili che siano motori della storia. Per me era importante raccontare una coppia che si aiuta e si sostiene a vicenda, come succede a quelle che conosco. Dunque mi sono limitato a raccontare una cosa che per me appartiene al mondo reale.

Non solo Favino, ma anche Linda Caridi nel film di Andrea Di Stefano
Della bravura di Favino è arduo aggiungere altro. Diverso è per Linda Caridi, qui alle prese con una parte che richiedeva anche un grande impegno fisico oltre all’uso dell’accento calabrese. La sua è una performance da applausi, in continua trasformazione all’interno dello stesso personaggio.
Lei ha fatto un provino straordinario. Appena l’ho visto lei è diventata subito la prima scelta. Lo aveva fatto da sola a casa e in qualche modo aveva beccato subito il personaggio e, anzi, mi ha ispirato molto il suo modo di affrontare la storia di Viviana. Poi ho proceduto in modo classico, nel senso che ho fatto prima un provino a lei da sola e poi l’ho fatta incontrare con Pierfrancesco. Insieme sono partiti subito a razzo, come se fossero fatti per fare i loro ruoli. La chimica ha funzionato all’istante e questo si vede sullo schermo: sembra che stanno assieme da sempre. Loro sono grandi professionisti e si sono aiutati l’un l’altro anche durante le scene come fanno i grandissimi attori.
Linda Caridi rischiava di scomparire nel senso che nonostante la bravura mostrata nelle precedenti apparizioni sembrava essere stata messa un po’ in disparte. Il ruolo di Viviana la rilancia in modo clamoroso, aprendogli altre e nuove possibilità.
Mi auguro invece che il cinema italiano le dia le soddisfazioni che merita perché è una grandissima attrice. Quanto fa nel film può essere paragonato solamente alle più grandi come Mangano e Vitti. Lei è una grandissima attrice come Pierfrancesco. Io ho lavorato con attori bravi, ma uno così non l’avevo mai incontrato.

Il cinema di Andrea Di Stefano
Il cinema che ti piace, non solo come regista ma anche come spettatore.
A me piacciono quei film in cui senti dei protagonisti che ti sembra di conoscere. Mi piacciono molto i film di Kurosawa, i noir urbani, la commedia all’italiana, quella degli sceneggiatori italiani capaci di scrivere La grande guerra o tutta la commedia italiana. Sono cresciuto guardando un po’ di tutto, in particolare il cinema delle grandi storie epiche, quello che entri al cinema e credi subito alla vicenda. Mi piacciono Memories of Murder, i noir asiatici. Adoro Scorsese, mi piace molto Hitchcock, mi piacciono tantissimi italiani: sono sempre curioso e mi piace tantissimo Paolo Sorrentino e i nostri contemporanei quali Garrone. A me fa enorme piacere quando vedo un regista che ce la fa a fare un grande film. Non ho alcun tipo di gelosia anzi, ogni volta che succede e sono in sala applaudo alla grande perché sono amante del cinema.