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The Last of Us – la Recensione definitiva della prima stagione

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Dopo una prima stagione di grande successo tra pubblico e critica, con numeri da record e uno share americano pari a trenta milioni di spettatori ogni settimana, la serie targata HBO di The Last of Us giunge alla sua momentanea conclusione.

Una prima stagione che ha messo in primo piano una grande fedeltà alla controparte videoludica, un cast di alto livello ed un’ambiziosa produzione dal budget complessivo di circa novanta milioni di dollari. Potete trovare le recensioni a tutti gli episodi della prima serie qui su Taxidrivers.

In attesa di novità riguardo la seconda stagione o la distribuzione home-video della prima, in questo articolo andiamo ad analizzare più nel dettaglio i motivi della enorme riuscita della serie, definendone pregi e difetti e auspicando previsioni per il futuro del suo intero universo narrativo.

La trama di The Last of Us

Nel 2003 si diffonde nel mondo un fungo in grado di trasformare gli esseri umani in mostri zomboidi privi di coscienza, il Cordyceps.

Venti anni dopo lo scoppio della brutale pandemia, l’umanità è decimata e preda della desolazione. Il cinquantenne Joel (Pedro Pascal), cinico contrabbandiere ormai privo di qualsiasi speranza verso l’umanità, è costretto a viaggiare attraverso gli Stati Uniti insieme ad Ellie (Bella Ramsey), una ragazzina di quattordici anni che non ha mai vissuto al di fuori della zona di quarantena.

Ma quella che doveva essere all’inizio una semplice consegna di un carico, si tramuterà ben presto in un lungo e atroce viaggio che li segnerà e legherà per sempre.

La Strada da percorrere

E’ impossibile non iniziare citando il titolo dell’opera magna di Cormac McCarthy (trasposta, poi, nel film di John Hillcoat), da cui la serie accinge i temi più importanti.

The Last of Us, infatti, non è altro che un lungo viaggio attraverso un territorio desolante di vita e umanità, compiuto da una coppia di esseri umani che trovano nella loro improvvisa unione la più primordiale necessità della vita, l’amore verso il prossimo.

Un padre ed una figlia che generano il loro rapporto ‘famigliare’ solo lungo il viaggio, non uniti da alcun legame carnale o di sangue, ma che completano a vicenda l’un l’altro.

The Last of Us, a differenza del romanzo di McCarthy, non disegna una realtà vuota, un anno zero post-apocalittico senza alcun passato, ma crea una realtà prima dell’Apocalisse non dissimile dalla nostra, ricordandone attimi di quotidianità e tranquillità che vengono distrutti dall’avvento della pandemia, risultato dell’indifferenza umana di fronte alla brutale rivincita della Natura.

Lo spettatore contempla così anche la caduta dell’American Dream moderno e di quei rimasugli della società odierna legata al fanfaronesco concetto dell’’America di nuovo grande’. Nasce un’America derelitta, circondata da rampicanti e nidi d’infetti, simboli della vittoria dell’ordine naturale, e abitata dalla disillusa speranza dell’essere umano.

In queste terre desolate, rimangono solo parole di odio e prepotenza, che i sopravvissuti inneggiano come dimostrazione di forza e coraggio. I concetti assoluti di bene e male sono perduti, ormai dispersi e mischiatisi nel vuoto. E dalla polvere figlia della distruzione ne esce il peggio, gli ultimi di noi,  spietati e feroci, che dal passato riportano solo rabbia e forza bruta.

La serie di The Last of Us rimaneggia questi importanti concetti, rimanendo però sempre fedele alla sua storia originale e uscendo raramente dal percorso. D’altronde, la sceneggiatura e supervisione narrativa della serie sono sempre gestite dal poliedrico Neil Druckmann, creatore del gioco originale.

Così facendo, la serie mostra una realtà perfettamente sfaccettata e realisticamente spettacolare, sia nella realizzazione delle scenografie che in quella degli effetti visivi e speciali, per non parlare delle coinvolgenti musiche del compositore premio Oscar Gustavo Santaolalla.

Tutto esprime quel concetto di pura violenza, senza mai demarcarla come giusta o sbagliata e trovando una contrapposizione nel personaggio della piccola Ellie, portatrice di quella innocenza che non può vivere a lungo senza macchiarsi di sangue.

<<Tu non sei mia figlia, e io non sono tuo padre>>

Il sottotitolo ricorda la frase forse più significativa non solo del rapporto tra i due protagonisti, ma forse della serie stessa. Quando le strade di Joel ed Ellie stanno per separarsi, il loro vero io si mostra per ciò che è, spezzato e bisognoso di essere completato.

Vediamo due facce della stessa medaglia. La parte sporca, macchiata di ferite e sangue, la parte di Joel Miller, padre che ha perso tutto a causa della pandemia e che riconosce nella violenza e sofferenza l’unica maniera per sopravvivere. La stessa violenza che lo guida nelle scelte più difficili e che lo accompagna fino alla fine.

Un uomo spietato, silenzioso, freddo e chiuso in una corazza dalla crosta impenetrabile. Ma che, nel momento meno probabile, scorge l’altro lato della medaglia. Un volto più luminoso ed innocente, spaventato e ammaliato dai misteri del mondo e necessario di una guida. Quello della piccola Ellie e della <<maledizione>> che porta con sé.

Due lati che appaiono incompatibili, neppure in grado di toccarsi. Due esseri umani senza alcun legame che si uniscono in un viaggio apparentemente impossibile. Un viaggio che, però, li porta a cambiare, a sporcarsi del sangue di altri, a pulirsi dei propri peccati ed imparare qualcosa l’uno dall’altro.

Il meraviglioso rapporto tra Joel ed Ellie sta qui, nel loro lungo peregrinaggio emotivo, fatto di dissidi, avvicinamenti, pessime battute, lotte all’ultimo sangue, tutte cose che uniscono i due nel legame più umano possibile.

Bella Ramsey e Pedro Pascal portano il tutto ai massimi livelli, vivendo ogni singolo momento personale col più forte attaccamento emotivo e raccontando la rinascita interiore di due persone cadute nella propria disgrazia. Ma non solo loro. The Last of Us trova l’interprete perfetto per ogni personaggio, a prescindere dal suo screen-time.

Da lode le interpretazioni di attori come Nick Offerman, lo scorbutico Bill la cui storia originale è stata modificata per raccontare il suo rapporto con Frank (Murray Bartlett) in un episodio dall’altissimo tasso emotivo, Anna Torv, la glaciale Tess, o Storm Reid, ovvero Riley, la grande amica di Ellie.

Personaggi rimasti fedeli non solo nel loro aspetto, ma soprattutto nella personalità, che rivive in ruoli in carne ed ossa. Fedeltà assoluta nelle battute più importanti della sceneggiatura originale, raccontate funzionalmente sulla scena televisiva.

Grande fedeltà, sì, ma forse anche troppa. Ed è proprio su questo punto che dobbiamo concentrarci un attimo.

Le differenze tra serie e videogioco in The Last of Us

Il videogioco The Last of Us viene ricordato, dagli esperti del settore e, soprattutto, dai suoi appassionati, non tanto per il suo interessante modo di giocare (o gameplay), ma più per il suo impianto narrativo, che si rifà, tra tante fila di virgolette, più al racconto per immagini cinematografico che alla tradizione videoludica.

Inquadrature secche, decise e senza alcun virtuosismo, dove il focus rimane sui personaggi e su quello che comunicano i loro volti (ottenuti realisticamente con la tecnica del motion capture) e le loro linee di dialogo asciutte ed essenziali.

Una messa in scena che unisce i fratelli Coen con il Danny Boyle di 28 Giorni Dopo, legata ad un racconto che viaggia tra il The Walking Dead di Kirkman e La Strada di McCarthy. Il pubblico ne rimane rapito ed il gioco diviene un successo commerciale e di critica.

Ed è proprio su questa sperimentazione tra generi, tra questa riuscita unione tra medium d’intrattenimento differenti che si pensava che sarebbero state appoggiate le basi per la serie. O almeno, che avremmo visto un’opera ambiziosa tanto quanto la sua controparte.

Si può già intuire come questo non sia il caso. La serie fa della sua quasi totale fedeltà la sua croce e delizia. Ogni momento clou viene ricreato in maniera precisa allo script e alla mise en scène originali, minando, però, qualsivoglia intuizione registica o autoriale degli artisti coinvolti.

Ad esempio, quanto sarebbe interessante vedere un The Last of Us dove la mano dell’emergente regista iraniano Ali Abbasi non sia limitata a due soli episodi ed a una pedissequa replica della realizzazione originale?

Ovvio, alcune differenze, anche abbastanza impattanti, sono presenti, ma, per quanto trattate con cura e buone intenzioni, risultano di numero esiguo e dalla dubbia utilità narrativa, apparendo più come cut-content (parti tagliate) del gioco che tale doveva rimanere.

La serie sembra lasciata in balia della necessità commerciale di soddisfare i fan di vecchia data e convincere i nuovi spettatori senza rischiare troppo, a discapito di qualsiasi nuova visione artistica dell’opera, trasformandosi in una specie di copia-carbone.

Previsioni e speranze per la seconda stagione

In seguito all’uscita della seconda puntata, HBO ha annunciato la seconda stagione di The Last of Us, già in fase di scrittura e in uscita, probabilmente, per fine 2024.

Ovviamente, in essa verranno seguite le vicende della seconda parte della saga videoludica, con un Joel invecchiato ed una Ellie ormai cresciuta ed entrata in età adulta, e il tutto verterà sul tema della vendetta.

La curiosità cresce anche grazie alle ultime dichiarazioni dello showrunner Craig Mazin, già autore della pluripremiata Chernobyl e co-sceneggiatore assieme a Druckmann, il quale ha sottolineato l’importanza di essere cauti e preparati nella realizzazione di una seconda parte, insieme alla possibilità di dividere in più stagioni il secondo capitolo videoludico.

Da sottolineare anche la volontà di Mazin di provare ad uscire dagli schemi predefiniti della seconda parte per sperimentare ancora di più e portare nuove visioni del mondo televisivo di The Last of Us, assieme a un maggior numero di Infetti.

La principale speranza per la prossima stagione sta proprio nella volontà di avere coraggio, di non aver paura di portare concetti ed idee nuove nella già ottimamente consolidata visione della realtà del videogioco.

Non sarà affatto un compito facile, ma ci auguriamo che il grande potenziale di questa prima stagione, espresso solo in parte, possa esplodere in una seconda parte che si preannuncia tra le più attese della storia della serialità televisiva.

Nel frattempo, non dimenticatevi che, quando siete persi nell’oscurità, potrete sempre trovare le Luci ad aiutarvi.

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