‘A Still Small Voice’, il documentario che ha stregato il Sundance: l’intervista a Luke Lorentzen
Premiato per la migliore regia nella categoria U.S. Documentary, il film del regista americano propone un'intensa riflessione sulle cure spirituali ai malati negli ospedali, seguendo il tormentato percorso di un'aspirante cappellana alle prese con un inquieto supervisore
Inizio con un’eresia, una bomba. Quando comincio a parlare con Luke Lorentzen, vincitore del premio per la miglior regia (U.S. Documentary) al Sundance 2023 col film A Still Small Voice, gli dico, a mo’ di complimento, una cosa volutamente scorretta. Ossia, che in Italia è uscito da poco (e per poco) il documentario che ha vinto l’ultimo Festival di Venezia ed è stato candidato agli Oscar, All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, ma che A Still Small Voice mi ha impressionato anche di più. Scorretto, eretico. Non solo perché il documentario della Poitras, incentrato sulla vita della fotografa e attivista Nan Goldin e sulla sua lotta contro la potente dinastia farmaceutica della famiglia Sackler, è effettivamente opera incisiva e ragguardevole; quanto perché è ingenuo, quasi puerile confrontare opere creative e farne graduatorie.
“Non ha senso dire che gli affreschi della Cappella Sistina di Michelangelo siano più belli di quelli della Cappella Scrovegni di Giotto”, gli dico (e so che mi capisce, venendo da studi artistici). Si tratta piuttosto di capire le qualità specifiche di ogni singola opera. Documentari compresi, tanto per scansare l’equivoca posizione di chi ancora non consideri creativo il cinema del reale.
Eppure, gli ribadisco, A Still Small Voicemi ha colpito di più rispetto al bello e blasonato vincitore di Venezia. E ritengo possa segnare molti spettatori in tutto il mondo, auspicando che possa presto arrivare anche in Italia. Per esplorarne l’unicità, ho parlato a lungo con Luke Lorentzen, toccando tanti temi tra cinema e reale: la cura spirituale ai malati, il cappellanato negli ospedali americani, l’etica del documentarista, i problemi del sistema sanitario, il burnout durante la pandemia, empatia e regole nel prestare le cure ai pazienti, la religione e la fede.
Clip esclusiva da A Still Small Voice
La trama di A Still Small Voice
Mati(nella foto di copertina di Luke Lorentzen) è un’aspirante cappellana sulla buona strada per terminare il proprio anno di residenza nel dipartimento di cure spirituali del Mount Sinai Hospital di New York City. Offre supporto emotivo e assistenza spirituale ai pazienti alle prese con incertezza, traumi e dolore. E lo sta facendo nel 2020 e nel 2021, i due anni più mortali nella storia degli Stati Uniti.
Trovare l’equilibrio diventa la lotta quotidiana di Mati, soprattutto quando, come afferma il suo supervisore, il reverendo David, “se la tua larghezza di banda è estesa, non hai lo spazio interiore per metabolizzare le cose più difficili che ti vengono incontro”. Non sorprende che Mati stessa abbia bisogno di supporto e guida, così come il suo supervisore, e il supervisore del supervisore. Che aspetto ha la cura quando tutto intorno a te sembra andare a pezzi? (Fonte: sinossi ufficiale, dal sito del Sundance)
Chi è Luke Lorentzen
Luke Lorentzen è un regista di documentari vincitore di un Emmy Award. Si è laureato al dipartimento di arte e storia dell’arte della Stanford University. Il suo film del 2019, Midnight Family (qui la recensione), racconta la storia di un’azienda di ambulanze a conduzione familiare a Città del Messico. Il film ha vinto oltre 35 premi da festival cinematografici e organizzazioni di tutto il mondo, tra cui un premio speciale della giuria per la cinematografia al Sundance Film Festival, il miglior montaggio dall’International Documentary Association e il Golden Frog per il miglior documentario da Camerimage.
Luke Lorentzen
Midnight Family è stato selezionato per l’Oscar come miglior documentario del 2020 ed è stato uno dei ‘scelti dalla critica’ del New York Times. L’altro lavoro di Luke come regista e direttore della fotografia include la serie originale di Netflix, Last Chance U, che ha vinto un Emmy come miglior documentario sportivo serializzato. Insieme a Kellen Quinn, Luke è co-fondatore di Hedgehog Films.
L’intervista: Luke Lorentzen parla di A Still Small Voice
Vorrei iniziare dalla fine e da ciò che si legge nei titoli di coda: “Il film è stato realizzato attraverso un progetto di rigorosa discussione tra Margaret Engel e Luke Lorentzen su considerazioni di carattere etico”. Vorrei chiederti su cosa vertessero queste discussioni e quali siano state le tue cautele etiche come documentarista in un contesto così delicato quale quello ospedaliero.
Sin dall’inizio, mi sono interrogato profondamente su come si potesse girare un documentario come questo e su quale rischio corressimo nel filmare i pazienti in ospedale. Ci sono voluti molti mesi sul posto con Mati per capire a quali pazienti rivolgersi per sottolineare la sua capacità di svolgere il proprio ruolo di cappellana. E penso che ciò che abbiamo finito per scoprire sia una serie di parallelismi tra ciò che un cappellano spera di fare a ciò che io come regista speravo di fare. Si tratta, in sostanza, dell’idea di far sì che le persone si sentissero viste e ascoltate, che percepissero la possibilità di essere davvero capite. Credo che un’attenzione di questo tipo possa essere persino curativa.
Alla fine di un processo di analisi, io e Mati ci siamo resi conto che sarebbe stato opportuno concentrarci su quei pazienti con cui lei aveva avuto relazioni più durature. Se ripenso a quanto abbiamo fatto, siamo sorpresi dal numero di persone che volevano che fossimo presenti e da quanto profonda sia stata l’integrazione tra l’attività filmica e quella di cappellanato.
Ma sei sempre stato “invitato” nell’ambiente riservato delle stanze?
No, anzi. Ritengo anche che i momenti più intensi del film siano quelli in cui non ero invitato, ma in cui sono lo stesso presente, e vicino, perché comunque la questione del permesso di girare e del consenso alle riprese sono state gestite come parte integrale del processo filmico. Mettersi in quell’attitudine di ascolto è stato in qualche modo curativo per tutti noi che abbiamo partecipato al film. Non mi riferisco solo ai pazienti, ma anche a Mati e David. Entrambe devono aver avvertito più volte quanto fosse incredibilmente stimolante il fatto di ricevere a loro volta l’attenzione del regista in un modo che non li facesse sentire soli.
Insisto sulla percezione della tua presenza. Il tuo obiettivo era quello di far sentire lo spettatore immerso nella situazione. Come sei riuscito contemporaneamente a far sentire lo spettatore presente e il regista assente? Per un documentarista, non invadere gli spazi, sapendosi nascondere, può essere decisivo.
Mi sento di dire che non tutti erano esattamente disponibili ad ammettermi nei propri spazi, ma tanti hanno manifestato un interesse attivo nei confronti del film consentendomi una presenza che si è poi rivelata benefica. Lo si percepisce nel film. Ciò che ho imparato è che da documentarista non puoi limitarti a chiedere il permesso di stare lì per fare le riprese, bensì devi fare in modo di portare avanti un progetto complessivo in maniera seria e rigorosa.
Questo, alla fine, ti consente di accedere a un tipo di materiale o a degli stati emotivi che altrimenti sarebbe difficile poter cogliere. Se ci siamo così a lungo interrogati sulle questioni etiche, non è stato solo perché era giusto farlo, bensì perché era l’unico modo per provare a concepire la migliore versione del film. E la migliore versione del film, per me, è quella che implica la mia presenza e la mia vicinanza in quei momenti di vita che sono di maggiore vulnerabilità, stimolo, intimità.
Riassumo: girare un documentario, ancor di più un film come A Still Small Voice tra malati e cappellani, è un processo molto più ampio di quello strettamente filmico. Significa anche acclimatarsi nella situazione su cui si vuole incentrare il racconto. Diversamente, il film risulterebbe insincero, raccogliticcio, infedele rispetto alla realtà. Quanto conta, in tal senso, la dote forse più umana che professionale della pazienza per il regista di documentari?
Di pazienza ce n’è voluta tanta. Sono stato in ospedale per 150 giorni, spesso senza nemmeno effettuare riprese. A volte sono rimasto fuori dalla stanza, sulla porta, consapevole che all’interno si stava vivendo qualche momento speciale col paziente, ma realizzando che non fosse il caso di esservi presente. L’ho dovuto accettare come parte del processo, così come ho dovuto accettare l’idea di non essere sempre invitato. E andava bene. Avevo solo bisogno di filmare abbastanza per poter mettere insieme il film. E ripeto, ci è voluta tanta pazienza. È stato un processo davvero lento e difficile. Filmavamo massimo due ore al giorno, tanto era sensibile il materiale.
L’altro lato della medaglia: fino a che punto, da regista, lasciarsi coinvolgere? Sto pensando a una scena nelle prime battute del film, ossia l’incontro di gruppo in cui David invita ogni cappellana a esprimere cosa stia provando, dando un nome a quel sentimento. In aggiunta, il reverendo chiede a ogni partecipante di unirsi, eventualmente, al sentimento espresso dagli altri membri del gruppo. Ecco, allora, venire citate l’impotenza, la frustrazione, la rabbia. Hai partecipato anche tu mentalmente a questo esercizio? Più in generale, qual è stato il tuo sentimento prevalente nel girare un film che si costituisci, per il pubblico, come un vero e proprio viaggio emotivo e spirituale?
Credo che l’aspetto che mi ha coinvolto in maniera più personale riguardi il modo in cui David e Mati affrontano i propri sentimenti di esaurimento e burnout. Mati sente di avere questo talento, parla del proprio desiderio di fare la cappellana, ma anche di come non sia riuscita ancora a trovare un modo sostenibile per farlo. Per lei è una dipendenza, una sorta di abuso, ma anche un processo profondamente significativo. La mia esperienza nel fare questo film ha avuto a che fare con l’esplorazione di tutte queste sensazioni. Mi sono sentito commosso e affascinato, ma ho sentito anche un dolore profondo, finendo per esperire lo stesso senso di burnout, stanchezza, cinismo dei protagonisti, con tale partecipazione che sento di stare elaborando ancora ora il tutto. Mi sono talmente spinto ai limiti, da chiedermi se alla fine valesse davvero la pena fare il documentario.
Un fotogramma tratto da Midnight Family, pluripremiato documentario di Luke Lorentzen del 2019
Il mio film precedente, Midnight Family, era stata un’avventura in un paese straniero e ho fatto esperienza di diversi spazi ed energie. Con A Still Small Voice, l’avventura è stata in qualche modo interiore: mettere insieme tutte queste sensazioni, l’incontro con tutti questi sentimenti, anche dolorosi, ma che restano profondamente importanti da scoprire.
Altri momenti chiave di A Still Small Voice riguardano un’altra tipologia di incontro: non solo le citate riunioni di gruppo, bensì gli incontri individuali di tutoraggio tra il supervisore, David, e Mati. Proprio durante uno di questi faccia a faccia, Mati spiega il disagio che ha provato nella precedente riunione di gruppo a essere stata rimproverata da David, per essersi avvicinata troppo emotivamente alla parente di una paziente deceduto. Mati usa un’espressione significativa per descrivere ciò che ha provato: “Le regole sono aumentate, l’empatia è diminuita”.
È una delle mie battute preferite del film!
Allora ci torno tra un istante. Mi sono chiesto se ancora una volta sia possibile un vero e proprio parallelo tra te e la tua protagonista. Intendo dire: ogni produzione cinematografica ha delle regole; in un documentario, in più, c’è quella che definirei “la tentazione dell’empatia”, che può però risultare pericolosa per il documentarista, perché rischia di compromettere distanza e obiettività. Come hai gestito questa dialettica tra regole ed empatia?
Penso che una forma alternativa di controllo e di vera empatia possa consistere nel cedere il controllo stesso e provare letteralmente a mettersi nei panni degli altri, lasciando andare ogni rigidità personale. E credo che sia una cosa molto difficile da fare. Nel mio caso, infatti, ci sono stati dei momenti in cui da regista era naturale per me voler avere il controllo di certi momenti o desiderare che la storia potesse andare in una certa direzione.
Poi, ho capito che avevo bisogno, piuttosto, di provare a comprendere appieno il vissuto di Mati e David, e lasciare che fossero loro a guidare il film. Credo sia importante fondare la direzione del film sulla curiosità, sull’empatia, sull’apertura, piuttosto che orientarla su una visione rigida e preimpostata. Questa è la regia che mi piace per un documentario, e so che invece è un problema quando mi aggrappo troppo fermamente a un risultato che voglio ottenere o quando sto filmando qualcosa e voglio fare in modo che vada diversamente.
Domanda chiave per il cinema del reale: cosa conviene davvero a un documentarista, intervenire sulla realtà o limitarsi a osservarla? E come si applica la tua opinione in merito rispetto alle vicende di Mati e David nel film?
Il modo in cui si sviluppano gli eventi è sempre più interessante di ciò che immagino e sempre più complesso. Lasciar andare le proprie aspettative è una forma di empatia, è un tipo di curiosità autentica: le domande aperte battono sempre le conclusioni preconcette. Questo è anche uno dei pilastri del cappellanato, da quello che ho imparato. Non potevo che capirlo stando lì, durante la residenza, accanto a Mati. Ci sono stato per la maggior parte del tempo e ho appreso questa abilità di sentirmi presente nella situazione, senza dover orientare il corso degli eventi. Si è radicata dentro di me l’idea che il miglior modo di realizzare il film consistesse nel cercare di arrivare al cuore di chi fosse Mati e chi fosse David.
Mi devi un commento sulla frase di Mati a proposito di empatia e regole. Perchè è la tua battuta preferita del film?
Mi piace perché quella stessa dinamica dei rapport tra David e Mati si è svolta sotto i miei occhi in diversi contesti, ma è nel momento preciso di quel faccia a faccia che ho visto una linea di separazione, non dico tra amore e odio, ma quasi. Ho sempre pensato a A Still Small Voice come a un film che partisse dalla questione specifica del cappellanato per estendersi più in generale a dinamiche umane, di vita. La tensione tra la vera empatia e la rigidità, che è la stessa vissuta da Mati col proprio supervisore, è centrale nella mia vita. Si tratta di notare i momenti in cui ascolto rispetto a quelli in cui parlo; momenti in cui esploro e sono curioso di ciò che mi accade intorno rispetto a momenti in cui sono io a spiegare e far dispiegare gli eventi, a determinare ciò che voglio.
Si tratta, in fin dei conti, della mia sensibilità sospesa tra sicurezza e paura. Quando mi sento sicuro, posso esplorare ed essere empatico. Quando ho paura, voglio regole, rigidità, chiusura. E penso di star diventando sempre più consapevole, anche grazie a questo film, di quella linea di separazione oltre la quale si genera l’apertura mentale che serve nella vita di tutti i giorni.
Poco tempo fa ho intervistato Mattia Colombo e Gianluca Matarrese, registi de Il posto, documentario candidato ai David di Donatello. Mattia, parlandomi della piega che ha preso inaspettatamente il loro film girato durante la pandemia di Covid-19, mi ha detto: “la realtà sa sempre sorprenderci”. Deve essere successo anche a te, girando A Still Small Voice.
Fotogramma tratto da Il posto, con la sala dei concorsi vuota
Intendo dire che ci saranno state cose che non potevano essere pianificate, come il contrasto tra Mati e David, che a inizio residenza era impensabile. Ma penso anche a scene specifiche, come quando, durante la già citata telefonata alla donna che ha da poco perso un caro, Mati comincia a parlare in maniera piuttosto spiazzante della sua stessa esperienza di lutto dopo la morte del padre nel 2016, contravvenendo alle regole del cappellanato, forse per troppa empatia. Come e quando la realtà ti ha sorpreso di più?
Tutti i pazienti che si vedono nel film sono incontri spontanei per niente pianificati. Il nostro compito era quello di segnare dei confini per il film entro i quali potessero svolgersi momenti di vita spontanea, momenti che non apparissero sorprendenti o spiazzanti, ma giusti, emozionanti. La cosa sorprendente di A Still Small Voice è che ho passato davvero tanto tempo insieme a tutti i residenti del gruppo. A un certo punto, stava addirittura per venirne fuori una versione che li includesse tutti.
Col passare del tempo, però, è diventato chiaro che alcuni dei sentimenti più profondi e complicati, così come le idee di maggiore spessore sul cappellanato, emergessero dalla vicenda di Mati, attraverso le domande che si andava ponendo. Ecco, allora, che con la mia squadra abbiamo reagito rendendo il film molto più specifico di quanto avessimo pianificato all’inizio. Allo stesso modo, come dicevi, il rapporto con David ha preso una piega inattesa e sorprendente, consegnandoci delle scene di una tensione unica in cui i principali temi del film prendevano letteralmente vita. Alla fine, quindi, è stato come imboccare un tunnel largo e nel corso del tempo restringere il percorso. Abbiamo lasciato perdere le strade e le versioni del film che lo rendevano anche fin troppo largo.
Vorrei restare sulla scena della telefonata di conforto e condoglianze che Mati fa alla donna. Non è facile girare la scena di qualcuno che parla al telefono, con un interlocutore fantasma: ti manca il controcampo. Si è notato, però, al pari di altre scene del film, che hai usato zoomate improvvise sul viso per catturare certe reazioni. Questo mi porta a chiedere: qual è la modalità di reazione di un documentarista a ciò che la realtà gli sottopone? In A Still Small Voice, ti sei affidato più ai movimenti della macchina da presa in tempo reale oppure a un successivo lavoro di montaggio?
Penso a entrambe. Il punto per A Still Small Voice è che avevo molte scene girate in long take. Per la maggior parte di queste, mi accorgevo che più cercavo di montarle, peggio diventavano. Nella scena della telefonata, la durata arriva a sette\otto minuti e, vedi, sostanzialmente ho lasciato tipo tre sezioni per lo più senza editing. Una buona parte del processo filmico è consistita nel dover capire in che modo girare scene del genere e secondo quale montaggio funzionassero meglio. È stata una questione di pratica. Ci ho messo mesi ed è stato difficile perché avevo un margine di errore molto ristretto. Di Mati, infatti, avevo in realtà filmato decine e decine di telefonate. Sono scene apparentemente semplici, ma è complicato riuscire a cogliere tutte le espressioni facciali, così come il dettaglio delle mani, in un modo che, per otto minuti filati, la scena sia interessante da vedere.
Anche solo fare in modo che il viso fosse in direzione della macchina da presa, e farlo con movimenti minimi della stessa, comportava una pressione enorme. Era una ripresa unica, in condizioni non sempre facili di mobilità, e dovevo riuscirci al primo tentativo. Ma serviva farlo. Mati portava molto di ciò che pensava e sentiva scritto in faccia. Il suo viso è molto espressivo.
Per un documentarista è importante non solo l’espressione facciale dei propri protagonisti, ma anche il linguaggio del corpo in generale. In A Still Small Voice, hai prestato grande attenzione all’intelligenza dei corpi. C’è una scena in cui Mati manipola nervosamente il ciondolo della collana. Oppure, la prima volta in cui David solleva la questione dei limiti emozionali e del controllare l’empatia, Mati reagisce serrando la mascella, e l’inquadratura di profilo lo coglie prontamente. Ancora: in varie scene riprendi i movimenti nervosi delle mani di David. Quanto è più importante il linguaggio del corpo in un film denso a livello di dialoghi?
È di enorme importanza. Per me questa è una domanda molto significativa. Di base il film consiste in una serie di conversazioni tra persone che da regista cerco di rendere quanto più pregne di vita e di complessità possibili. Per fare ciò, serve sapersi sintonizzare costantemente con ciò che accade e prestare attenzione al linguaggio del corpo. Soprattutto in scene in cui sapevo che i protagonisti indossavano mascherine, dovevo rendermi conto di come le loro emozioni venissero comunicate, anche al di là delle espressioni del viso.
Ma nel viso, intanto, sei stato molto attento agli occhi.
Di fatto, mi sono concentrato sugli occhi come non avevo mai fatto nei film precedenti. Di Mati ho spesso ripreso gli occhi evitando inquadrature di profilo. Volevo frontalità e sguardo in ogni fotogramma. Non volevo, comunque, che le immagini sul linguaggio del corpo fossero percepite come degli inserti di transizione, o che si pensasse che fossero messe lì solo perché non avevo abbastanza inquadrature del viso. Volevo, piuttosto, costruire un’esperienza piena di come la persona che stavo filmando comunicasse in modi diversi.
Alludevi alle mascherine, che ci riportano al fatto che il film è stato girato quando la pandemia poneva ancora limitazioni. In che modo il Covid ha influenzato l’atmosfera del film? Ricordo, per esempio, una scena alla fine del film: mentre David parla col suo supervisore, dice che non ha più benzina nel serbatoio. Intende che è esausto. E il supervisore di David risponde che nessuno dei residenti ne ha più. Poco dopo, parlando con un paziente che la macchina da presa non mostra restando all’esterno della stanza, Mati dice che tutti sono in situazione di stress e si sentono annebbiati.
Penso, o almeno spero, che il film mostri direttamente i sentimenti diffusi durante la pandemia senza essere un film sulla pandemia. A Still Small Voice è un film senza tempo e continuerà, auspico, a creare significato e generare interpretazioni nel corso del tempo. Certo, comunque, che è anche un ritratto del burnout durante la pandemia a New York. Questa sensazione ribolle in ogni momento e dettaglio del film senza necessità di citarla esplicitamente. Solo due volte, di fatto, viene menzionato il Covid. Volevo che la gente capisse che in quel momento storico lavorare nella sanità era qualcosa d’impossibile. E non finirà qui. Certi problemi di sistema su come le cure siano somministrate a livello istituzionale, continueranno a essere tali anche dopo la pandemia. È vero ciò che dici, si sente la tensione nell’aria.
Esaurimento, svuotamento, fatica. Sono tutte parole usate dai protagonisti di A Still Small Voice. Sono tutte sfumature del burnout. Sei stato toccato personalmente da questa vibrazione nell’aria? Hai avuto bisogno di una strategia di sopravvivenza per non logorarti a tua volta?
Io personalmente? Bella domanda. Penso di stare ancora imparando a gestire le mie energie. Non penso di essermi preso particolarmente cura di me stesso durante il film. Ora, però, dopo questa esperienza, ritengo che la cura di sé a la gestione delle proprie forze debba far parte della mia abilità di regista. Girare un film e prendersi cura di sé stessi durante le riprese sono due aspetti molto più interconnessi di quanto pensassi. L’unico modo per capirlo era stressarmi durante la realizzazione del film. La prossima volta sarà diverso. Sto ancora imparando.
Spero che anche questa intervista contribuisca a un processo di riflessione condiviso. Spesso i registi mi dicono di aver capito meglio degli aspetti del loro stesso film ragionando ad alta voce. Ma per chiudere il cerchio dei nostri pensieri, vorrei venire, in chiusura, al titolo del film. In che modo ti senti di dire che il titolo A Still Small Voice riassuma il significato complessivo del tuo film? C’è una scena ben precisa in cui compare questa espressione.
Il titolo viene da diverse parti, ma il punto di partenza è appunto la scena a cui ti riferisci. Una donna anziana, malata di cancro ai polmoni, parla con Mati e dice di avere questa voce sommessa dentro, una sorta di dialogo interiore. Trovarla è come trovare un posto solido e chiaro dentro di sé, laddove è riposta la propria integrità, il senso del giusto e dello sbagliato. In ultima istanza: il senso delle cose. Ho pensato che fosse un modo davvero bello di inquadrare l’obiettivo a cui tutte le persone del film puntavano. David, Mati, i pazienti, cercano tutti una qualche solidità interiore, una pace dentro. Ma a still small voice è anche un’espressione che viene dall’Antico Testamento e convoglia questa idea di come i momenti di calma e quiete abbiano il potenziale di essere profondi e densi di significato.
Non è scontato prestare attenzione a questo messaggio in un mondo così rumoroso. Ci sono parti dell’Antico Testamento, in cui Dio parla con questa voce piccola e ferma, dicendo cose a cui è difficile fare attenzione nell’immediato, ma che sono appunto profondamente significative. È il tipo di presenza che incarna il cappellano in ospedale: non è un dottore, non è un infermiere, bensì una presenza sottile. E, penso, importantissima.
In un mondo così rumoroso, il silenzio è una strada per ritrovare il senso della vita. Di silenzio ce n’è anche in A Still Small Voice, che pure abbiamo convenuto essere un film così centrato sui dialoghi.
Il silenzio è molto importante. È stato un elemento essenziale nella progettazione del suono riuscire a rendere quieto e intimo un luogo rumoroso come l’ospedale. C’è stato moltissimo lavoro tecnico dietro le quinte per renderlo possibile. Mati è così affascinante per me perché non si limita a porre queste grandi domande, bensì solleva davvero le questioni da cui scaturiscono. È lei ad aver fatto in modo che nascesse un film di osservazione che non fosse troppo generico o disconnesso dalla realtà. Sono domande che fanno parte della sua vita quotidiana e a cui ha potuto in qualche modo rispondere attraverso il film.
Domanda di rito: prossimo progetto?
Non ho ancora un progetto definito. Mi riposerò un po’ e viaggerò con questo film. E vedremo cosa ne verrà fuori. Intanto, grazie mille per aver dedicato del tempo a guardarlo e a parlarne con me. Lo apprezzo molto.
Grazie a te per questo intenso film e questa bella chiacchierata.
(Si ringrazia il co-produttore Kellen Quinn)
A Still Small Voice
Anno: 2022
Durata: 93'
Genere: Documentario
Nazionalita: Stati Uniti
Regia: Luke Lorentzen
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