La parola autore, qualcuno oggi la mette in discussione, magari con la scusa che è un termine desueto, persino ideologico (la politique des auteurs di nouvelvaghiana memoria come spauracchio dei cosiddetti nuovisti). E’ giusto? E’ sbagliato? Vediamo un po’.
In Europa da anni esiste l’eccezione culturale, che preserva le opere cinematografiche per appartenenza nazionale e diversità linguistica, laddove per lingua si intende non solo l’idioma d’appartenenza, ma un approccio originale, uno stile del regista, e con lui, naturalmente, dello sceneggiatore e anche di chi produce il film. Insomma, diversamente da altri prodotti industriali che troviamo sul mercato, il cinema non è una saponetta. Questo assunto fu creato soprattutto per difendere l’audiovisivo europeo dall’invadenza di quello americano. Ma in questi anni tanta acqua è passata sotto i ponti. Nel frattempo sono arrivate le piattaforme cinematografiche in streaming, quasi tutte a stelle e strisce, e il mercato è cambiato, molto. La figura dell’autore-regista viene ora messa in discussione, salvo poche eccezioni: Cuaron, Inarritu, Sorrentino…., che meritano la giusta attenzione per meriti presi sul campo. Ma ora perlopiù, anche se lo si nomina poco, si preferisce la parola director, privilegiando uno sviluppo canonico del plot piuttosto che le diversità linguistiche, appunto, gli stili; tutto ciò a vantaggio degli sceneggiatori, dice qualcuno, veri beneficiari di questo “nuovo corso”. Sta di fatto che la stretta c’è e non credo sia un caso che nelle promozioni delle serie solitamente i nomi degli autori (i registi come gli sceneggiatori) siano assenti.
Beninteso, non ho nulla contro le piattaforme (e neanche verso gli sceneggiatori): hanno portato nuova linfa a un cinema che, specie dopo la pandemia, stenta a trovare maggiori afflussi nella sala; ma evidentemente grande potere lo hanno acquistato anche grazie alla stessa pandemia, che ha finito con l’impigrire lo spettatore, il quale i film preferisce guardarseli in pantofole sulla poltrona a casa propria. Ma, chiedo, considerando una maggior importanza restituita alla sceneggiatura – ahimé – con la tendenza che vede affermarsi sempre più una scrittura spesso codificata su “rinnovati” imput occidentali (il politically correct, per esempio), potrebbero oggi riaffacciarsi sulla scena pubblica registi-autori, per così dire, fuori dai canoni come (ne scelgo diversi tra tanti) Roberto Rossellini, Jean Luc Godard, John Cassavetes, Marco Ferreri, David Lynch?
In una recente assemblea di 100 autori lo sceneggiatore Umberto Contarello ha difeso l’importanza dell’opera. In sintesi se ognuno di noi, a cominciare dai registi, facesse un passetto indietro, rinunciando a un po’ del proprio io per spendere le proprie energie creative sulla realizzazione dell’opera stessa, ciò che realmente rimarrà ai posteri, questo gioverebbe non poco al mondo dell’audiovisivo. Ha ragione Umberto, meno narcisismo farebbe meglio a tutti, forse anche perché lungo più decenni fin troppi registi in Italia si sono autoproclamati Autori, quando questa “patente” dovrebbe essere concessa dalla critica e soprattutto dagli spettatori. Tuttavia ho un dubbio: non è che questo passetto indietro rischierebbe (o sta già rischiando) di trasformarsi un po’ per volta in una rinuncia generalizzata a sguardi più personali sul mondo?
Torno alle piattaforme, concentrandomi sulle docuserie. Quella dedicata al controverso maestro spirituale Osho, per esempio, Wild wild country (2018), di Chapman e Maclain Way, ha riscontrato un po’ ovunque, anche in Italia, un meritato successo di pubblico. Due anni dopo anche la serie sull’operato di un nostro personaggio altrettanto controverso, Vincenzo Muccioli, SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano (2020)ha avuto successo, ma con un obbligo editoriale che fa un bel po’ la differenza. I tre autori e la regista, Carlo Gabardini, Gianluca Neri, Paolo Bernardelli e Cosima Spender, nell’elaborare la scrittura precedente alla realizzazione della serie, si sono dovuti attenere in tutto e per tutto alla struttura della serie vincente, e cioè Wild wild country. Il risultato è ottimo, beninteso, quasi quasi ho preferito SanPa all’altra docuserie. Tuttavia c’è di che preoccuparsi se alle condizioni editoriali cui ho fatto cenno in futuro ne seguiranno altre, se questo procedere diventerà la regola. E il perché è presto detto: un algoritmo, che contempla anche il gusto del pubblico attraverso i numeri, rischierebbe così di essere più importante del punto di vista del regista-autore. Lo sanno bene molti giovani registi che lavorano alle serie prodotte dalle piattaforme in streaming, sempre più spesso mortificati da scelte di linea editoriali capestro, che comprendono non solo la rinuncia al final cut; senza tralasciare poi i compensi, ben più bassi rispetto alla media europea. Un’ Europa che di recente ha visto tra l’altro la Danimarca davanti a tutti, imponendo il suo Governo una Netflix tax del 6%in favore del cinema nazionale e migliori condizioni economiche per i creativi e i tecnici che lavorano sulle produzioni della piattaforma americana; cosa che ha provocato il momentaneo allontanamento di Netflix dal Paese. Una battaglia che sta portando i suoi frutti se è vero che Netflix pare voglia rientrare in Danimarca.
San Patrignano. Comunit. Vincenzo Muccioli con ragazzi comunit.
Tutto questo ha una sua logica, beninteso: nella civiltà dell’intrattenimento la parola autore può dare sempre più fastidio. Cosa importa di uno sguardo personale sul mondo se i numeri sono sopra ogni cosa? E perché concedere spazi agli ormai sempre più noiosi registi che pretendono un punto di vista sulle storie che raccontano, magari con proposte tematiche e linguistiche difficili e sghembe? E’ recente la notizia che la direzione del Festival del Cinema di Taormina ha deciso per quest’anno di selezionare solo film piacevoli, divertenti ed edificanti, perché a dire del suo Direttore la gente è stufa di sentire solo cattive notizie. Figuriamoci, dunque, se la parola autore in un siffatto scenario avrebbe diritto d’asilo!
Certo il mercato è il mercato, e quella dell’audiovisivo è un’industria che deve produrre profitti, specie ora che nelle sale le cose vanno piuttosto male. Ma c’è da stare, è il caso di dirlo, con gli occhi ben aperti, perché un indirizzo editoriale di troppo avallato dagli autori, sceneggiatori e registi per quieto vivere o banalmente per paura di perdere il lavoro, può aprire ad altri scenari ben più preoccupanti; insomma, roba da “grande fratello”. Certo, se poi, a parte poche eccezioni, continuano a mancare i Rossellini, i Godard, i Cassavetes, i Ferreri, i Lynch, diverrà ben difficile abbattere i muri, ai più invisibili, che si stanno innalzando giorno per giorno nel mondo dell’audiovisivo.