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Interviews

‘Il posto’, l’Italia dei concorsi è su MUBI. Intervista a Colombo e Matarrese

I registi raccontano il popolo dei concorsi pubblici in un documentario generazionale girato anche durante la pandemia e candidato ai David

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Gente in un autobus di notte

Ora che per Il posto è arrivata la candidatura a uno dei più ambiti “concorsi nazionali”, i David di Donatello, verrebbe da dire affettuosamente che i registi Mattia Colombo e Gianluca Matarrese finiscono per assomigliare un po’ di più ai loro personaggi: quelli che tornano a casa dopo un viaggio; quelli che sono e si sentono in concorso; quelli le cui sorti possono dipendere dal “sistema Italia” – in questo caso, cinematografico. Bentornati in Italia, grazie alla distribuzione di MUBI. Il viaggio de Il posto partiva da lontano. Per dirne un paio, dal 2022, l’esordio al Visions du Réel prima, il salto oltreoceano all’Hot Docs di Toronto poi, il più grande festival di documentari dell’America del Nord.

Questo perché, secondo un felice paradosso, la loro visione del reale affronta una storia così italiana da riuscire straniante e attrattiva per il pubblico internazionale: la lotta per la sopravvivenza lavorativa di un gruppo di concorsisti cronici, che dal Sud Italia partono sistematicamente alla volta delle selezioni pubbliche al fine di diventare infermieri. Gli esami non finiscono mai. In tema di domande e risposte, ne abbiamo parlato in un questionario a tre voci coi registi Mattia Colombo e Gianluca Matarrese.

Il trailer de Il posto

La trama

Cava de’ Tirreni, Salerno. Raffaele ha fatto del precariato – anche il proprio – un business in espansione, creando una compagnia di trasporti “speciali”: quelli dedicati al popolo dei concorsi pubblici. Gli autobus della compagnia Bus To Go, guidati da Peppe, raccolgono infatti squadre di aspiranti infermieri, mentre la macchina da presa ne coglie speranze, inquietudini, storie, profilando un credibile ritratto generazionale tra miraggio del posto fisso e arte di arrangiarsi. Per una parte d’Italia, la ricerca del lavoro pubblico e il meccanismo dei concorsi sono ordinaria amministrazione. All’estero, invece, appare come un fenomeno singolare, di cui capire i contorni.

Per Variety, Il posto è un film “sul miraggio di un posto fisso e sulla tragedia di una nazione alle prese con la disoccupazione”. E se tragedia non è, che la situazione sia dannatamente complicata lo racconta la genesi stessa del documentario, con gli autori costretti a cambiare i piani in tempo reale durante i mesi della pandemia. Sopravvivere è sempre una strategia.

L’intervista: Mattia Colombo e Gianluca Matarrese raccontano Il posto

Nota del Redattore: questa intervista è stata realizzata il 20 aprile 2022. Pubblicata poco oltre quella data, è attualmente inedita, in quanto cancellata dal web a seguito di un attacco hacker.

ANTONIO MAIORINO: mi rivolgo a Mattia. Parto da una rapidissima sequenza del film, anche piuttosto avanzata, in cui commentando uno dei quesiti del concorso appena svoltosi, una ragazza afferma di aver saputo rispondere alla domanda perché l’aveva già trovata in un altro concorso. Si può dire che il protagonista de Il posto sia il popolo dei concorsi?

MATTIA COLOMBO: sicuramente, e mi fa piacere che questa domanda scaturisca da una battuta così breve e apparentemente insignificante, ma in grado davvero di contenere la complessità della questione. Non abbiamo mai voluto fare un film su infermieri e sanità pubblica. Questo andirivieni continuo della collettività che si sposta alla ricerca di qualcosa è stato l’input generatore di tutto. È un film corale, anche se ha un personaggio che trascina la narrazione, Raffaele, fondatore del servizio di autobus. Ma il vero protagonista è l’autobus con le sue storie, quelle di chi va e viene.

ANTONIO MAIORINO: Gianluca, per altri tuoi film mi hai raccontato quanto fosse importante trovare una connessione personale col soggetto del documentario. Come si riesce a trovarla nel caso de Il posto, ossia di una storia, passami il termine, in apparenza così ordinaria? Mi spiego: in altri tuoi documentari, i mondi esplorati già si raccontavano da soli come dei film. Penso all’alta moda in Fashion Babylon o al sadomaso de La dernière séance.

GIANLUCA MATARRESE: mi è stato fatto notare che in tutti i miei quattro film ci sono traslochi. Ne Il posto il trasloco è nella dimensione della casa, di dove sia il mio posto, di dove metto le radici. In tutto ciò ho rinvenuto la dimensione che mi interessava. Quell’andirivieni riguarda tutti. Io vivo in Francia, ma vengo dal Sud Italia e i miei si sono trasferiti al Nord. È una diaspora alla ricerca del proprio posto. In questa dinamica ho trovato ciò che più mi identifica. E aggiungerei: non solo è un film corale, ma anche globale. Non ha a che fare col mestiere della sanità, è una precarietà di tipo mondiale. Parla di una generazione costretta all’instabilità. Sognare il posto fisso statale può essere anacronistico in un modo di precari e startupper, ma è il ritratto di un’epoca che incarna non solo l’Italia, bensì l’Europa tutta.

M.C: inizialmente il film si componeva di tanti viaggi e da spettatore assistevi ai diversi percorsi. L’idea era che il primo venisse raccontato per intero, mentre il resto del film fosse fatto di “brandelli” di viaggi diversi. Nel prodotto finale i viaggi diventano due perché c’è stato il Covid, ma abbiamo comunque capito come anche solo con due viaggi si potesse trasmettere l’idea di questo moto incessante, di qualcosa che si ripete nel tempo. Anzi, sarebbe funzionato anche meglio affidandoci alle parole o alla stanchezza dei personaggi che dicono non ce la faccio più. In altri termini, si percepiscono tutti i viaggi che sono stati fatti prima per il solo fatto di vedere una donna stanca e demotivata che ne parla.

A.M: ancor di più trattando di viaggiatori, è immaginabile, e d’altro canto visibile, l’impatto del Covid sul vostro progetto filmico. Nel film c’è un pre-Covid e un post-Covid. Si può dire che pandemia sia stata un punto di non ritorno non solo per il Paese, ma anche per Il posto?

M.C: è così. Se ritorno con la mente a quel marzo 2020, ripenso a quando stavamo per partire in produzione e ci avvisarono della cancellazione del concorso che volevamo seguire. Fummo obbligati a restare a casa. Ci siamo subito chiesti come avremmo potuto fare per portare avanti l’idea portante del film, che doveva essere in autobus. Siamo rimasti in contatto con molti infermieri via Skype, al punto da immaginare che diventasse un film sul Covid, tra videochiamate e balconi.

A.M: ma il film non è diventato questo: a dimostrazione di quanto sia importante l’apertura creativa nell’atto di girare un documentario.

M.C: non è diventato un film sulla pandemia perché con la ripartenza e col desiderio di Raffaele di partecipare a uno dei viaggi che la sua stessa agenzia organizzava, devo dire, la realtà ci ha stupito. Abbiamo afferrato il potere drammaturgico della realtà. Siamo quindi ripartiti con una marcia in più, perché il nostro personaggio, che poteva rimanere in sordina dietro e restare sullo sfondo, diventava un po’ più protagonista e si metteva in viaggio anche lui per paura di una crisi economico-finanziaria paventata da tutti, tanto gli infermieri quanto i liberi professionisti.

A.M: come sono cambiati i viaggi ripresi prima e dopo la pandemia?

M.C: la realtà ci ha raccontato anche un nuovo modo di ripartire. Autobus vuoti con un modo diverso di parlare: non si parlava di meno, ma diversamente. Il primo viaggio era scoppiettante, con un clima da gita scolastica. Durante il lockdown l’autobus era vuoto e gli infermieri più scoraggiati, con un pericolo più grande della precarietà: la salute.

A.M: l’ansia, l’incertezza, la critica al Sistema sono elementi fortemente sottolineati nelle vostre note di regia. Mattia poco fa parlava di un film globale. Chiedo allora: in che modo a livello filmico emerge questo valore generazionale de Il posto?

G.M: ci sono prospettive diverse all’interno del film. Il sentimento che, come registi, ci siamo portati dietro sin dall’inizio era quello che ci spingeva a chiederci se cercare un posto fisso fosse un anacronismo, e se questa ricerca fosse propria del Sud per stare vicino ai genitori o appartenesse anche al Nord. Alla fine, ci siamo risposti che la pluralità delle prospettive era indicativa della collettività. C’è chi vuole partire, chi vuole restare; c’è poi il caso di Raffaele, fondatore di Bus To Go, che poteva monopolizzare il film. Il suo può sembrare un business fondato sulle spalle di chi cerca lavoro per trovare a sua volta lavoro. È una possibile follia di grandeur: costruire un impero, fare l’imprenditore. Ma non ci soffermiamo a giudicarlo. Il posto è un film pluri-character-driven, se proprio vogliamo usare le etichette.

M.C: aggiungo che abbiamo dovuto fare molte rinunce, nel senso che c’erano tante altre parti e dichiarazioni di ragazzi incontrati che spiace siano saltate, ma erano rinunce necessarie. Approfondivano questioni legate soprattutto al funzionamento delle agenzie interinali e di certi contratti capestro. Ma non volevamo per forza approfondire tutte le problematiche. La cosa più importante era dare degli umori. Abbiamo allora tenuto quei caratteri che meglio trasmettevano ansia e incertezza. Tutti i personaggi che sono a bordo, dalle amiche che si spalleggiano alla mamma che cerca di sbarcare il lunario, fino al ragazzo incazzato contro i contratti capestro, trasmettono questo sentimento che ci ha guidato nella scelta di chi tenere nel montaggio e chi tagliare.

G.M: Raffaele, poi, è il collante del dispositivo, la persona con cui abbiamo passato più tempo e che ci ha permesso di entrare nel proprio mondo. Ma nel film c’è di tutto: chi è stanco, chi lotta, chi è rassegnato. C’è anche quella che si divertiva a fare i concorsi perché si conosce gente. Questo è l’umano. Abbiamo cercato di non essere condiscendenti facendo un film di infermieri incazzati. Noi stessi non avevamo una posizione chiara da prendere, perché non doveva essere un film di economia o sociologia.

A.M: vorrei provare a trasmettere le sensazioni de Il posto a chi non l’abbia ancora visto. Mi rivolgo a Mattia. Una caratteristica del film, come dicevi, è quella di far passare l’umore attraverso le parole. In questa polifonia di voci, non hai tuttavia avvertito il rischio di fare un film compresso nei dialoghi, iper-parlato? Hai cercato qualche break audio-visivo?

M.C: ciò che ho fatto per evitare questo rischio è stato non rimanere troppo legato al contenuto di quanto detto, quanto al sentimento della scena. Le prime volte che io e Gianluca abbiamo ascoltato i discorsi degli aspiranti infermieri, non ho capito il 70% delle cose che dicevano, poiché quello sanitario non è il mio mondo. Temevamo di dover raccontare troppo quel funzionamento, ma poi abbiamo capito che non era sempre importante ciò che veniva detto, quanto il tono che portava nella voce un personaggio: leggero, incazzato, nervoso.

Il posto, fila di persone che si apprestano a sostenere concorso viste da lontano con uomo della sicurezza di spalle a destra in primo piano

Il posto, pellegrinaggio alla sede del concorso

È vero che Il posto è un film molto parlato, non facile da digerire, ma ci prendiamo il rischio con consapevolezza perché sono convinto che se stacchi il cervello e ti perdi, l’atmosfera comunque non la smarrisci mai, soprattutto nel secondo lungo viaggio. Dal concorso in poi ci si lascia trasportare. Lo spettatore si cala nel ritmo, proprio come se fosse un viaggio che ti porta a sedere accanto ai personaggi ascoltando cose più o meno piacevoli, leggere o pesanti. È come stare a bordo del film, e questo fa evitare il rischio di un film parlato, come lo definivi.

A.M: a Gianluca faccio una domanda su alcuni momenti particolari del viaggio: quelli notturni. La notte sembra una dimensione a parte, l’attraversamento di uno spazio intimo che crea una tribù.

G.M: ci sono due momenti di buio: la notte prima degli esami e quella dell’arrivo verso casa. La prima notte è caratterizzata dall’incontro tra i concorsisti, seguito dal sonno e infine dall’adrenalina del concorso. La seconda si sofferma sui loro pensieri. Li vedevamo dormire, o non dormire, e ci chiedevamo cosa pensassero. Quando siamo partiti la prima volta, abbiamo capito che la notte era un momento importante perché la maggior parte dei viaggi avviene di notte.

A.M: ma non è una semplice questione “di orario”. La notte diventa un tópos, un luogo del racconto intriso di umori e riti.

G.M: di fatto, abbiamo riscontrato una dinamica che si ripeteva all’interno dell’autobus. Quando si sale, alle prime fermate, c’è questo ambiente da gita scolastica in cui la gente fa small talk e si conosce; poi si diventa coesi come compagni della stessa avventura. Il viaggio comincia; di notte si dorme, al mattino ci si alza sfatti ma anche carichi di adrenalina. Poi c’è il concorso, e in maniera meccanica o sistematica c’è il crollo sull’arrivare del buio. Tutto ciò scandito da fermate dell’autogrill.

A.M: questo darebbe addirittura la sensazione di un road movie. Paradossalmente, il contrario, a livello visivo, di un posto fisso.

G.M: il dispositivo è fatto di voci, sensazione di on the road, persone che si accasciano. L’Italia sfreccia attraverso i finestrini, non in maniera pittoresca, ma in modalità autogrill, da road movie sporco e scasciato. Non è il deserto di Thelma e Louise, ma roba di asfalto, lampioni e periferie.

M.C: dopo tutto quel parlare di Sistema, quel preoccuparsi, quel lamentarsi, cosa si prova, infine, dopo aver fatto il concorso? Abbiamo immaginato una sequenza con quei pensieri in sovrapposizione, alcuni raccolti anche durante il lockdown con conversazioni Skype, altri registrati a bordo di viaggi successivi. Abbiamo creato un coro di voci che è la voce sì degli infermieri, ma anche di un’intera generazione. Il posto racconta bene come la generazione precaria che va dai vent’anni ai cinquanta con un’unica voce dica ciò che sente. La notte di cui diceva Gianluca è anche di sospensione e di pausa rispetto al flusso, a volte una valanga, di informazioni e parole. Nella parte finale la parola torna, ma, appunto, è una parola diversa.

A.M: ho fatto una domanda su un tempo, la notte. Ora ne faccio una su uno spazio, appena citato: l’autogrill, sorta di limbo del viaggiatore. Ne Il posto ci sono scene in autogrill: non saprei se per scrupolo documentaristico, per una questione di ritmo o addirittura per sfruttarlo come “luogo confessionale”.

G.M: negli autogrill accadevano le stesse cose. Erano come bolle. Posti tutt’altro che glamour, in cui, peraltro, era complicato trovare le inquadrature giuste, per quell’orribile luce gialla che viene dall’alto. Tra un Camogli e un Rustichella (i panini dell’autogrill), le persone si conoscono. C’è poco tempo, si va in bagno, si mangia, si fuma una sigaretta. Si formano dei capannelli in cui le persone hanno voglia di scambiarsi due chiacchiere. Abbiamo vissuto tutti momenti di questo tipo, ma in questo casa le persone parlano solo dei concorsi. A seconda del luogo del concorso, si immaginano in una destinazione diversa, con un futuro diverso.

Capitava la stessa cosa anche a me quando facevo provini attoriali: ogni volta mi vedevo già incarnato in un personaggio, in una destinazione. E poi non succede mai. Ogni esame ti proietta in una regione, in una città, in una vita nuova. In quello spazio senza luogo e senza tempo dell’autogrill si svolgevano queste microproiezioni.

A.M: un’altra bolla spazio-temporale, ma in senso diverso, è quella dei palazzetti dei concorsi. Lì trovo che Il posto esprima le sue scene di maggiore poderosità cinematografica, con un effetto di liturgia rituale, di catena di montaggio, quasi alienante: la preparazione delle buste, gli ingressi scaglionati, questa voce da Big Brother che dà il via alle prove.

M.C: premetto che io, al contrario di Gianluca, ero intrigato dalle luci dell’autogrill e volevo ampliare quelle parti. A me piace molto stare dietro la camera. Non riesco a separarmi da ciò che riprendo, per me è fondamentale anche solo scegliere la posizione. Fa parte della regia. Girare di notte ti regala qualcosa di magico. Avevamo deciso che il film sarebbe stato girato per lo più in autobus con camera a mano, primissimi piani quasi morbosi che in sala diventano faccioni enormi, molto vicini ai personaggi. Nel palazzetto, invece, volevamo stare a cavalletto con più fissità, ottiche grandangolari che raccontassero la dimensione allargata.

Il posto, la sala dei concorsi vuota

È stato difficile ottenere i permessi per il concorso, ma quando li abbiamo avuti, ci siamo scatenati e abbiamo cercato di portare a casa più scene possibili. La liturgia del Covid e della misurazione della temperatura ha aiutato a raccontare questa dimensione così come si percepisce. Ma il concorso pre-Covid che si vede nella prima parte è nell’immagine di una massa informe che confluisce senza regole ed entra. Con gli ingressi regolamentati per la pandemia, invece, trasmette un senso, come dice Gianluca, alla Metropolis, con quella meccanicità dell’uomo che non è più uomo ma numero, di persone che devono svolgere un compito in certi tempi.

G.M: il nostro sogno era girare ai concorsi prima del Covid. Era fisicamente più potente. C’era un’organizzazione come nei concerti di Vasco Rossi o dei Pink Floyd, con tanto di ambulanza e quanto servisse per gestire le masse. Quando è arrivato il Covid abbiamo pensato che non ci fosse più la possibilità di girare in maniera suggestiva ai concorsi. E invece, abbiamo trovato questa maniera geometrica, grafica.

A.M: anche la colonna sonora di Cantautoma, lo stesso autore del soundtrack di Fashion Babylon di Gianluca, offre un contributo ritmico a queste sensazioni.

M.C: era la prima volta che lavoravo con Davide (Davide Giorgio, vero nome di Cantautoma, n.d.R.), ma avevo ascoltato il lavoro eccezionale fatto con altri film di Gianluca. In generale mi piace dare la massima libertà all’autore di esprimersi nel solco di un mood che possa piacere anche a noi. La grandissima idea che ha avuto è stata quella di usare una certa ritmicità di quella zona, la tammurriata, con una cadenza ripetitiva e incessante. Secondo me è non solo ritmato, ma anche drammatico, nel senso di capace di portare qualcosa di ineluttabile, come di un pericolo che si avvicini.

G.M: quando si parlava con Davide, avevamo tracciato due strade su come usare le musiche. O si andava in contraddizione, con assenza di ritmo, oppure si accompagnava e si cadenzava ma senza essere folkloristici o stereotipati. Abbiamo discusso di voler rendere un carico crescente di tensione con percussioni, come la grancassa, ma non solo d’orchestra, bensì anche di oggetti, persino fatti in casa, come delle maracas artigianali. Quello dell’esame è un momento importante per i partecipanti, e ce n’è di tensione. Si siedono, arriva una voce come dall’oltretomba e si vive questa dimensione che tutti conosciamo anche solo per aver fatto degli esami.

A.M: certo che sarebbe improbabile girare un film come Il posto seguendo un gruppo di persone che si sposti da Nord verso Sud per fare un concorso. Mi vien da pensare a quando una delle infermiere spiega che a Reggio Emilia il sistema sanitario funziona meglio. Non è l’unico momento di confronto tra Nord e Sud. Anche se non centrale, esiste una “questione meridionale” ne Il posto, già implicita nell’ambientazione del film tra meridionali in cerca di lavoro?

G.M: la questione del Mezzogiorno l’abbiamo anche inclusa nei nostri dossier, affrontandola per forza di cose. Non era il tema del film, ma nemmeno potevamo evitarlo. A un italiano non hai bisogno di spiegarlo, ma ti assicuro che per gli stranieri un film così è uno shock. Il Sistema dei concorsi per loro è qualcosa di enorme, macchiettistico. Non a caso, il film ha attratto finanziamenti e consenso soprattutto all’estero. In Italia diamo per scontata la situazione del Mezzogiorno, ma all’estero c’è curiosità di capirne di più, non in maniera sensazionalistica, bensì attraverso un’osservazione realistica, come quella che può fornire un documentario.

A.M: cos’hai compreso su questo settore di lavoro in Italia partecipando alle tribolazioni dei tuoi personaggi?

G.M: che al Sud assumono su contratto a tempo determinato con agenzie interinali mentre le aziende ospedaliere del Nord spendono più soldi per le assunzioni. È una cosa su cui mi interrogo, ma di cui, intanto, osservo le conseguenze. Prima di tutto, la necessità di spostarsi. Al Nord andranno a lavorare massimo a 50 km da dove sono nati. Non saprei come spiegarlo.

A.M: Mattia, frattanto, saprà sicuramente spiegarmi una scena ricorrente del film: il lavaggio dei vetri da parte di Peppe, l’autista dell’autobus. Se per almeno tre volte un gesto così rutinario viene fatto oggetto di attenzione filmica, deve esserci una ragione. Anche questa è una liturgia.

M.C: c’è un’idea di circolarità. Il film s’inaugura nel momento in cui s’inaugura un viaggio e si chiude quando si chiude un viaggio. Sia io che Gianluca siamo affezionati a Peppe, l’autista. È il padre putativo dei viaggiatori e si prende cura tanto dell’autobus quanto dei passeggeri stessi. Anche per questo lo vediamo alle prese con la pulizia. A questa cura per il veicolo, corrisponde l’attenzione nel chiedere ai passeggeri come sia andato l’esame. Scherza, ride, si preoccupa. Ecco, questo è il suo ruolo: preoccuparsi. La pulizia è un modo per raccontare bene il suo personaggio e la sua premura.

A.M: un film è sempre un pezzo di vita. Il posto finisce, ma la ricerca del posto continua; quelle storie continuano. Che sentimento ti accompagna da regista, Gianluca, nel congedarti dai tuoi personaggi, sapendo che molti di loro continueranno questa ricerca affannosa?

G.M: il mio finale non è amaro. Quello che dice Raffaele è vero. La qualità maggiore dell’italiano è toccare col c**o per terra per poi rialzarsi, reinventarsi, trovare soluzioni: l’arte di arrangiarsi. Raffaele non ha seguito il suo sogno di fare l’infermiere, forse sarà businessman o imprenditore. Ora si è aperto a un altro pubblico, porta gente al teatro, allo stadio, apre un’agenzia di viaggi. Il suo posto l’ha trovato. È triste dover sgomitare, ma come dice Peppe, alla fine lo passi l’esame. Nulla è così grave come può sembrare. Nel nostro Paese abbiamo la pelle dura, la cotenna, e non mi sento così negativo.

M.C: il bello delle co-regie è che a volte ci sono sensazioni diverse rispetto a certe scene. Rispetto al finale ho una visione aperta. Per me era importante mantenere nello spettatore la sensazione che il film non si chiudesse lì, che i viaggi si ripetessero. Mi bastava vedere Peppe che rilavava i vetri per chiudere, perché comunque si ricominciava da lì.

Il posto: l'autista Peppe con la mascherina visto di spalle mentre si volta

Il posto, l’autista Peppe è un personaggio chiave del documentario

Quello che succede dopo è una chiusa, non un finale, ma è bello che io e Gianluca abbiamo le nostre opinioni. Con la première internazionale che abbiamo fatto, abbiamo visto che molti spettatori si interrogavano sull’esito del concorso di Raffaele, immaginando che non l’avesse superato. Infatti torna a casa un po’ sconsolato e racconta che sente di non avercela fatta, ma è bello chiudere col ritorno nella dimensione domestica e riaprire su un ipotetico futuro. Sono tante suggestioni che regalano allo spettatore la possibilità di portarsi a casa ciò che vuole. Non mi piace fare film chiusi in cui conosco la materia e ti racconto ciò che già conosco. Avevamo il desiderio di osservare un fenomeno e raccontarne le suggestioni lasciando al pubblico la possibilità di rispondersi.

Il posto

  • Anno: 2022
  • Durata: 77'
  • Distribuzione: MUBI
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia, Francia
  • Regia: Mattia Colombo e Gianluca Matarrese
  • Data di uscita: 21-February-2023

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