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Approfondimenti

‘The Fabelmans’, ‘Babylon’ e ‘Empire of Light’: il cinema attraverso il cinema

Le riflessioni metacinematografiche nei film The Fabelmans (Spielberg), Babylon (Chazelle) e Empire of Light (Mendes) messe a confronto

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La magia del cinema

Steven Spielberg in The Fabelmans, Damien Chazelle in Babylon e Sam Mendes in Empire of Light ci raccontano il cinema attraverso il cinema. Ogni regista rivela un volto diverso della la Settima Arte che di anime ne ha tante, sebbene “la magia del cinema”, come sosteneva Christian Metz, risieda in quello stato a metà tra il sogno e la veglia. Quel “sonno da svegli” contraddistinto da un duplice sguardo, uno verso l’esterno e uno verso l’interno. Perché il cinema non si limita a rappresentare ma trasfigura, proietta, riflette. Ogni volta, prima della proiezione, lo spettatore in una sala buia compie un atto di fede. Perché il cinema ha più a che fare col credere che col vedere.

The Fabelmans: il cinema come sogno e vocazione

“I film sono sogni che non dimenticherai mai” – dice Mitzi (Michelle Williams) al suo piccolo Sammy (Mateo Zoryan), alter ego di Spielberg nell’autobiografico The Fabelmans, prima della proiezione de Il più grande spettacolo del mondo di Cecile B. DeMille.

La prima volta in una sala buia, il piccolo protagonista ha la sua grande epifania: cos’è quella magnifica illusione proiettata da un fascio di luce? Perché essa ha così tanto potere sulle persone?

Per Sam “fare cinema” significa, in qualche modo, esercitare un controllo sulla realtà, e al contempo, elevarla, farne poesia.

Per Spielberg, il cinema è la perfetta combinazione tra espressione artistica e abilità tecnica. È sogno e fatica, evasione e salvezza, perdono e redenzione. È rarefatta come la musica eppure così viva che la puoi quasi toccare. È una donna che danza davanti ai fari accesi di un’auto, è uno sparo improvviso, la folle corsa di un treno, è un segreto che la realtà non sa decifrare.

In The Fabelmans, Spielberg ci svela l’anima del cinema, la sua intima essenza. Ci spiega che cos’è la passione per l’arte, quella autentica che brucia come un fuoco che mai si consuma e che il mestiere del regista è una vocazione: “Non basta amare una cosa, bisogna prendersene cura”.

Ci spiega anche che un film va ben oltre il tempo della proiezione: è tutto ciò che lo precede e che ne segue. Il cinema è vita, lo si può trovare in quegli attimi straordinari della quotidianità e può, persino, trasfigurare il reale, portandolo in una dimensione altra e, in qualche modo proteggerlo, preservarlo. È verità ma anche una meravigliosa bugia. È il luogo dello stupore, a cui fare sempre ritorno perché è casa e non esiste posto più sicuro di quello.

In The Fabelmans, il cinema non è solo un luogo o un mezzo di espressione artistica; è un sentimento, una magia, un miracolo in cui sogno e realtà si incontrano, fino a perdersi l’uno nell’altro come in un abbraccio, oltre lo sguardo e oltre l’orizzonte.

Babylon: il cinema come industria e star system

In Babylon, Chazelle ci racconta gli albori del cinema, come nascente industria, come un complesso meccanismo di un’arte, ancora tutta da comprendere, e un sistema che trasforma comuni mortali in miti che “condividono l’eternità con gli angeli e i fantasmi”.

Il regista ci svela la duplice anima del cinema, una che sprofonda negli inferi, tra lusso sfrenato, lussuria e perdizione e l’altra che risiede nell’Olimpo, un luogo mitologico, dove la morte non esiste. Dove una lacrima che riga un volto o la luce perfetta di un tramonto esprimono, e in qualche modo giustificano, il tumulto, il caos, l’eccesso quella sorta di ‘follia collettiva’ che ha cambiato per sempre le sorti di Hollywood.

“Tra cent’anni, quando io e te saremmo andati via già da tempo, quando qualcuno infilerà un tuo fotogramma in una ruota dentata, tu sarai di nuovo vivo” –  dice la critica Elinor St. John (Jean Smart) alla star sorpassata Jack Conrad (Brad Pitt), in uno dei momenti più significativi del film.

Se la musica per Chazelle è la forma suprema dell’arte, il cinema riesce a condensare tutte le espressioni artistiche, dalle arti figurative al teatro, è una combinazione armonica di immagini e suoni che unisce l’estensione dello spazio e la dimensione del tempo.

Il cinema è “sangue, fatica, sudore e lacrime”; il suo cuore è pulsante, la sua vitalità è quella di un animale selvaggio. La Settima Arte per Chazelle è un po’ come un fiore che nasce dal letame ma è in questo che risiede la sua grandezza. La bellezza di un singolo momento, di una singola ripresa annulla le brutture, le distorsioni, il rumore.

Il circo reboante e grottesco dei set cinematografici vive in funzione di quell’attimo eterno di grazia e gloria, animati dal desiderio di “voler far parte di qualcosa di più grande”, come dice il personaggio di Manny Torres (Diego Calva). Babylon è una lettera aperta di odio e amore verso Hollywood e una profonda riflessione sul cinema, sulle sue evoluzioni, passate e future.

Il cinema muto cede il passo a quello sonoro, segnando la fine di un’epoca, il declino di molte carriere e l’alba di un nuovo modo di concepire e realizzare i film. Per sua natura, il cinema è un’arte che muta, destinata a cavalcare il tempo; è il luogo, fisico e immaginario, delle possibilità.

Come sembra affermare Chazelle in Babylon, è un animale che non si lascia domare e tantomeno uccidere.

Empire of Light: il cinema come luogo e metafora

In Empire of Light di Sam Mendes, il cinema è un luogo fisico, una bolla avulsa dal tempo e dai contrasti politici dell’Inghilterra degli anni Ottanta. Il multisala Empire è un piccolo microcosmo attorno cui ruotano le vite dei suoi dipendenti, in primis quella della direttrice di sala Hilary (Olivia Colman), e del responsabile Mr. Ellis (Colin Firth).

Il cinema è un universo perfettamente funzionante, dalla biglietteria, alla vendita di snack e pop-corn, dall’accoglienza degli spettatori alla pulizia delle sale, fino al suo cuore più segreto, la cabina del proiezionista Norman (Toby Jones).

Mendes divide lo spazio del cinema in due luoghi divisi, il piano inferiore e quello superiore che sembrano segnare una cesura tra il tempo presente e quello passato.

Se il primo appare ordinato e luccicante, il secondo è dismesso e ha un fascino decadente, con un piano al centro di una maestosa sala e le grandi vetrate illuminate. Il piano superiore, come un fantasma, detiene ormai solo i ricordi di un vecchio cinema che si è trasformato in una piccionaia, con un bellissimo affaccio sulla cittadina.

Non a caso, è in questo “mondo perduto” che si svolge la tormentata liaison amorosa tra Hilary e il giovane addetto alla biglietteria Stephen, un uomo di colore che combatte quotidianamente contro il pregiudizio razziale che anima l’Inghilterra in quegli anni e che, spesso, sfocia in cieca violenza.

Mentre la vita, con i suoi chiaroscuri, scorre tra il primo e il secondo piano, il cinema “si fa” altrove, nella cabina di Norman, il luogo “proibito”, la “camera segreta” dove la magia avviene.

Quando Norman permette a Stephen di accedere alla sua cabina, quest’ultimo gli rivela che non la immaginava così grande.

Non vuoi che la gente lo sappia. Dovrebbero solo vedere un raggio di luce. Ma qui dietro ci sono cinghie, pulegge, interruttori, ruote dentate. Meccanismi compressi”– dice il proiezionista.

E continua: “Sono i carboni. La scintilla fra i carboni fa la luce. È incredibile. Perché sono solo fotogrammi statici, con l’oscurità in mezzo. Ma c’è un piccolo difetto nel tuo nervo ottico, quindi se faccio girare la pellicola a ventiquattro fotogrammi al secondo, non vedi l’oscurità. Si chiama fenomeno Phi. Visualizzare immagini statiche rapidamente in successione crea un’illusione di movimento. Un’illusione di vita”.

Quindi il cinema vive grazie a noi spettatori, grazie a quel “difetto” che non fa percepire il punto oscuro. È una magnifica illusione che crea la vita.

Già, la vita che non è altro che “uno stato mentale”, come dice Peter Sellers in Oltre il giardino di Hal Ashby, il primo film che Hilary si concede all’Empire, luogo che, nel tempo, è diventato la sua campana di vetro e la sua prigione. E allora, di nuovo, la Settima Arte, nello sguardo commosso di Olivia Colman diventa il punto di fuga per spiccare il volo verso orizzonti inesplorati.

Il titolo del film Empire of Light, rimanda, e forse non è un caso, a una serie di dipinti di Magritte che ritraggono un’immagine paradossale, un paesaggio notturno illuminato dal chiarore del giorno.

Sulla parete della grande hall dell’Empire campeggia una frase tratta da Love’s Labour Lost di William Shakespeare: “Find Light Where Darkness Lies”.

Il prodigio della luce, in mezzo all’oscurità, è tutta lì la magia del cinema. Ma, dichiara Mendes, è anche il segreto della vita: Hilary decide di (ri)cercare la luce, nel buio della sua esistenza. Cammina a tentoni, inciampa, cade, si fa male, si rialza. Fino a che ciò che il nostro nervo ottico riesce a fare per un suo connaturato difetto, si trasforma in lei in una essenziale abilità: non percepire più  i punto oscuri e lasciare spazio alla luce.

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