Le centinaia di commenti sui social network degli ultimi giorni dimostrano che molti sono caduti in un equivoco riguardo al compleanno di Tomas Milian. Compleanno che, secondo le date che circolano sul web, lo avrebbe portato al fatidico numero ottanta. Ma le suddette date sono errate. Infatti l’attore cubano è nato il 3 marzo del 1933, e non del ‘32. Comunque per parlare di Milian ogni scusa è buona, e quindi onoriamo questo settantanovesimo compleanno.
Doverosamente, negli anni, sono stati scritti fiumi di parole sulla carriera di Tomas Milian. Inizia negli anni cinquanta grazie a Mauro Bolognini, che lo scoprì in quel di Spoleto durante il Festival dei due mondi, per poi attraversare il cinema “impegnato” del decennio successivo; Milian diviene poi un divo del western, successivamente incarna le ombre maledette del poliziesco che sfoceranno nella maschera proletaria e grottesca di Monnezza prima e Nico Giraldi poi, fino ad arrivare alla sua coraggiosa fuga dallo stivale per ricominciare lì dove tutto era iniziato. Ma in occasione dei suoi settantanove anni rivangare tutto questo sarebbe ridondante.
Ci sono quegli attori, quei volti che si muovono sullo schermo con una leggerezza e un magnetismo per cui per descriverli le terminologie di rito mancano di efficacia: carisma, in uno sguardo fugace e casuale Tomas Milian ne ha più di molti attori nel pieno vigore della loro carriera; talento, la storia ci insegna che non è cosa rara e di sicuro non è la sola dote a donare l’immortalità; incisività, certamente, ma per connotare, o sarebbe più giusto dire “afferrare” o definire, attori come Milian, e non ce ne sono molti a tenergli compagnia, bisogna muoversi al di là di queste frasi fatte, delle etichette usa e getta. Viene piuttosto alla mente di chi scrive quanto affermato dal teorico russo Vladimir Jankélévitch riguardo alla difficoltà di delimitare epistemologicamente la musica, l’arte astratta e metafisica per eccellenza. Il carattere di realtà non-reale concerne l’elemento primario della musica: il suono è reale per il fatto che scompare nell’istante stesso in cui sorge. Esattamente questo: come per la magia o la chiaroveggenza, come lo stesso Jankélévitch definisce i suoni e rimandi della musica, certi attori creano mosaici che trascendono i loro personaggi e donano a chi guarda qualcosa che somiglia più a uno spartito musicale, pieno di misteriose “vibrazioni” e suggestioni inafferrabili. Milian non interpreta i suoi personaggi, li compone.
Forse, in parte, così si può spiegare l’effetto che Tomas Milian fa a chiunque si trovi a incappare nel suo cinema. Non importa a quale fase della sua carriera appartenga il film che ci si trovi a vedere, perché alla fine il risultato è lo stesso: il giovane cinefilo viene stregato e catturato dai suoi personaggi. E a quel punto la soglia è stata varcata, lo spettatore è stato contagiato. Queste parole potrebbero apparire ad alcuni eccessivamente celebrative, ma non è così e i fatti parlano chiaro. Non c’è una figura, nell’intero panorama del cinema italiano (e non solo), affiancabile a quella di Tomas Milian. Di quanti attori si può dire lo stesso? Una carriera che dal cinema dell’intellighenzia autoriale approda armoniosamente ai generi colonna del cinema popolare. Inoltre, non c’è appassionato del cinema di genere italiano che non consideri Milian come uno dei massimi punti di riferimento, e che non abbia visto tutti (o quasi) i titoli che compongono la sua ricca filmografia. Se, come disse Truffaut, il cinema è una splendida malattia, di certo quella strana dipendenza che suscita Milian è tra i sintomi più insinuanti.
Con grande intuitività nel captare l’essenza di ognuno dei suoi personaggi, denudandoli e privandoli di qualsiasi filtro, fino a mostrarli in tutte le loro idiosincrasie e contraddizioni, mettendo quasi a disagio lo spettatore dinanzi a tanta umanità, Milian ha saputo evolversi con rara disinvoltura, perché come disse François de La Rochefoucauld: «Solo i grandi sanno essere vecchi».
Eugenio Ercolani