Il regista Ivan Zuccon, già all’attivo dal 2000 con 5 lungometraggi, presenta al pubblico delle grandi sale “Colour from the Dark”. Grosso errore etichettarlo come film “di genere”. L’horror non dovrebbe mai essere considerato un genere: è semplicemente cinema
In un periodo storico, politico, sociale come il nostro, dove rischiare o solo pensare di poter fare qualcosa di diverso diventa un’impresa da leoni, ricordiamoci che esiste ancora qualcuno che continua ad andare avanti per la propria strada. Il regista Ivan Zuccon, già all’attivo dal 2000 con 5 lungometraggi, presenta al pubblico delle grandi sale Colour from the Dark, dopo ben 4 anni di distanza dalla sua effettiva uscita. Grosso errore etichettarlo come film “di genere”. L’horror non dovrebbe mai essere considerato un genere: è semplicemente cinema. Punto. E dei più puri. E bisognerebbe sempre porsi davanti allo schermo senza mai nessun pregiudizio. Bisogna essere presenti, osservare, interpretare, dare spazio alla fantasia, alle situazioni, alla paura. Come dovrebbe essere così anche nella vita.
La mano di Zuccon alla regia è molto libera. Parte da un’ispirazione dal racconto di H.P. Lovecraft The colour out of space (che fu già preso come modello di riferimento per La morte dall’occhio di cristallo del 1965 con protagonista il grande Boris Karloff) e si sviluppa in altri territori, sia geografici che immaginifici. La storia, infatti, qui trasmigra da una regione degli Stati Uniti alla campagna ferrarese, durante i veri orrori della Seconda Guerra Mondiale. L’ambientazione risulta familiare e realistica: tutti noi abbiamo trascorso almeno una volta le vacanze dai nonni, in qualche paesino sperduto dell’Italia e abbiamo giocato tra i campi e annusato l’odore di muffa di quelle cantine dove i vecchi contadini conservavano il loro miglior vino. O, se proprio non l’abbiamo vissuto di persona, l’abbiamo sognato…magari in chiave più tetra, creando con la mente storie di fantasmi, streghe, legnose porte che scricchiolano e celano misteriosi segreti…
I personaggi di questa (dis)avventura, rinchiusi nella suddetta frugale cornice, sono una famiglia composta da Pietro e Lucia, marito e moglie, e da Alice, sorella di Lucia. La loro vita sembra tranquilla, normale, ma solo in superficie, forse. Pietro lavora duramente nei campi per poter sfamare i suoi familiari, ma è affetto da una malformazione alla gamba che lo costringe a zoppicare: questo lo rende ancora più taciturno e qualcosa nell’aria presagisce che anche il rapporto con Lucia non è sufficientemente appagante. Pur essendo una donna bellissima, (la donna in questione è impersonificata dallla provocante “screem queen” americana Debbie Rochon) Lucia sembra esprimere attraverso il suo sguardo apparentemente sommesso uno spirito represso, ma che emana una luce tutt’altro che rassicurante. A completare il quadro c’è Alice, una ragazza di circa vent’anni ma che ne dimostra dieci, chiusa nel suo mondo muto e alienato, che ha come guida Rosina, una buffa e inquietante bambola di pezza che usa come una sorta di periscopio. È lei a scoprire d’istinto l’abbagliante chiarore che spunta dal pozzo della casa. Una volta entrato in contatto con le energie circostanti, inclusa terra, aria, acqua, piante, insetti e esseri umani, quel bagliore si manifesta sottoforma di male assoluto e inspiegabile e si insinua senza pietà in tutto ciò che prima era vitale e ricco di colori. A questo punto, tutto cambia: le personalità, i comportamenti, le abitudini dei personaggi si capovolgono in un lento succedersi di eventi tragici e sanguinosi, di violenti incubi che si confondono con la realtà, mettendo in discussione ogni cosa.
Ancora una volta, il male nella concezione lovecraftiana, che è assai antica e profondamente distruttrice, supera i limiti umani, divini o pseudo-divini e porta a una morte senza salvezza, nutrendosi e assorbendo tutto, impregnando sia la materia che la meta-materia. Può condurre alla follia, a una condizione che l’essere umano non è in grado di controllare o gestire. La natura del male scandisce il tempo, come scandisce il ritmo del film: quell’entità superiore ne regola il defluire, paziente e inesorabile fino al suo esaurimento finale. Le energie vanno concentrandosi fotogramma dopo fotogramma, consumando e deteriorando corpi e oggetti, come si nota dalla scenografia e fotografia molto ben curate.
Le musiche, prevalentemente sinfoniche e spezzate da piacevoli, sinistri intermezzi di solo pianoforte, sono state affidate al maestro Marco Werba, già apprezzato e premiato per la colonna sonora di Giallodi Dario Argento.
Le principali scelte di Zuccon sono apparse riuscite, tenendo anche in considerazione il ridotto budget avuto a disposizione. La componente fantascientifica del racconto originale, comunque, è stata messa da parte per sua autonoma scelta: per adattare la storia alla nostra cultura, quel mitico “male lovecraftiano” ha assunto un significato legato alla nostra tradizione cristiana, ovvero al diavolo, alla possessione demoniaca e ai relativi esorcismi e stratagemmi vari per sconfiggerla. Invano, naturalmente. Questo cambiamento di rotta, però, ha giocato in favore dell’uso del trucco e degli effetti speciali: le scene che contenevano un maggiore contenuto di efferatezza e terrore connessi alla sfera religiosa/satanica erano, infatti, le più suggestive.
Uno stile registico (montaggio incluso) molto istintivo, ma nello stesso tempo amalgamante e gestito a modo. Sia per l’abilità nel saper dirigere attori di diverse nazionalità e farli interagire tra di loro (tra cui due giovani italiani, Michael Segal e Matteo Tosi, che hanno recitato entrambi in lingua inglese come tutto il resto del cast), sia nella curiosa presa di posizione nel voler inserire e dosare alcuni particolari che donavano spessore all’intera opera. Una su tutte, la scena iniziale dell’infantile ragazza che comunica con la bambola dalla vocina spettrale, che ricorda non poco Il nascondiglio, pellicola di uno dei nostri autori più importanti di cui possiamo vantarci in tutto il mondo, cimentatosi anch’egli con l’horror con memorabili capolavori: Pupi Avati.