In Sala

The Double

Nonostante l’ottimo cast (Richard Gere, Martin Sheen) e il contributo di alcuni specialisti del genere (Jeffrey Kimball e Steven Mirkovic), “The Double” dà come la fastidiosa impressione di rivendicare a tavolino una forza d’urto, un impatto che in realtà non possiede

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Anno: 2012

Distribuzione: Eagle Pictures 

Durata: 98′

Genere: Thriller

Nazionalità: Usa

Regia: Michael Brandt

Oltre vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, una famigerata spia russa sbuca all’improvviso dal dimenticatoio della Guerra Fredda e torna a colpire a due passi dalla Casa Bianca. Per assicurare il criminale alla giustizia, il capo della CIA Tom Highland (Martin Sheen) gli mette alle calcagna un’improbabile coppia di sbirri. Si tratta di Paul Sheperdson (Richard Gere), un agente in pensione dell’Agenzia, e Ben Geary (Topher Grace), una matricola dell’FBI.

Installata in quest’ambientazione un po’ anacronistica, la spy story parte fortunatamente col pivello e il veterano in conflitto sulla pista investigativa da seguire. Il loro vivace disaccordo, infatti, salva in qualche modo la trama da un inizio un po’ stracco ed è la principale trovata cui l’esordiente Michael Brandt ricorre per conferire ritmo e movimento anche al resto della storia. L’altro espediente portante è rappresentato dal gioco degli equivoci, stratagemma canonico nei film di spie, per cui nessuno è davvero quello che sembra.

Annunciato sin dal titolo, The Double, che allude esplicitamente alla doppiezza, alla menzogna, il gioco delle apparenze spariglia ripetutamente il filo logico della caccia all’uomo, innescando colpi di scena che rianimano l’azione come boccate d’ossigeno. Sospinta in questo modo da uno snodo narrativo all’altro, fino all’epilogo e poi al contro finale messi a punto con la stessa formula, la pellicola non brilla per virtù spettacolari. Anzi, dà come la fastidiosa impressione di rivendicare a tavolino una forza d’urto, un impatto che in realtà non possiede. Certo non dipende dalla confezione, tecnicamente molto accurata grazie al contributo di specialisti del genere, come Jeffrey Kimball, che ha diretto la fotografia di Mission Impossible II e Steven Mirkovic, che ha firmato il montaggio dell’adrenalinico Nome in codice: Broken Arrow. Forse allora dipende dalla debolezza della sceneggiatura, punteggiata da vistose incongruenze logiche e da alcune grossolane approssimazioni, come quella che assimila l’intera intelligence americana a un’armata di fessi. Ma forse, più di tutto, dipende proprio dal principale ingrediente di questa ricetta cinematografica, che è la sua grande star, Richard Gere. Non è che se la cavi male, anzi sbriga quest’incombenza con dignitoso mestiere. Però è troppo stagionato, troppo fuori ruolo in un film del genere, che può essere recitato efficacemente solo sulla cresta dell’onda. È questo imbarazzante vorrei ma non posso che rovina l’aura di un attore mitico e allunga ombre crepuscolari, deprimenti sull’intero spettacolo.

Mirko Benedetti

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