J., seducente e ricco uomo d’affari, vive nel lusso di in un futuro non ben precisato: acqua cristallina della piscina, cibo sublime e colorato, auto potenti e abiti raffinati. Ma la vita di J. è vuota. Neppure la realtà virtuale, che lo spinge sin dove la violenza è ammessa, sembra riuscire a sedare la sua routine addomesticata dove le macchine hanno preso il posto della compagnia umana. Neppure una voce si alza in questo clima asettico, raffreddato da luci scostanti e implacabili, dove il computer programma la vita.
J. trova il suo motivo di ripresa nel Personal Disease: nel mondo futuro del tutto realizzato, anche la malattia si compra al supermercato e si consuma come caramelle. Da una parte la pillola per star male, dall’altra quella per star bene. In ripresa del miglior Matrix di tutti i tempi, col dolore arriva anche la comprensione, della vacuità del materiale e della fugacità della ricchezza. J. cammina per strada e adesso, soltanto adesso, capisce che ci sono suoni, odori, atmosfere che prima ignorava.
Il citazionismo pittorico affiancato al montaggio ellittico e non violento, ci accompagnano in realtà asettiche e difformi, incorniciate dalle sonorità alienate dei Carlomargot. Quale emblema del finale, J. rimane accasciato, come Marat lo fu per David, ad affrontare la sua sofferenza indotta, in una sorta di ammonimento-sfida terminale e senza scampo, diretto a chi rimane inerme a guardare.
Rita Andreetti