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La leggera profondità della Filmografia di Gianni Di Gregorio

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Sorridere non costa nulla. Così come mostrarsi cortesi. D’altronde – scriveva Esopo – “nessun atto di gentilezza, per piccolo che sia, è mai sprecato”.

Lo sa bene Gianni Di Gregorio, un regista che “non è mai troppo tardi”, uno che nel 2008, a quasi sessant’anni, dopo un passato da aiuto regista e sceneggiatore (suo lo script, assieme ad altri, di Gomorra (2008) di Matteo Garrone), si è messo dietro la macchina da presa per raccontare la grazia e la bellezza di quattro scatenate ottuagenarie. Ed è stato subito successo.

Lo abbiamo intervistato qualche mese fa in occasione della uscita di Astolfo e torniamo a parlarne oggi per ribadire la nostra ammirazione per un autore che sa fare un cinema di qualità a tutti gli effetti.

‘Astolfo’ conversazione con Gianni Di Gregorio

Un successo meritato quello di Di Gregorio perché lontano da stereotipi e cliché. Costruito attraverso la ricerca di genuinità, perpetuato attraverso cinque lungometraggi in cui mette in scena ciò che ha visto, quel che ha vissuto: madri possessive, romanità trasteverina, tempo che passa, incroci sentimentali.

Di Gregorio non tratta argomenti facili in sé – la solitudine della vecchiaia, la precarietà economica, il dramma dell’immigrazione clandestina, il cinismo dei nostri giorni – ma sceglie di raccontarli con quella leggerezza che sa di gentilezza.

Il sorriso e il garbo, in poche parole. Una sorta di controcanto fatto di solidarietà e calore che, attento a non scadere mai nel finto-buonismo, finisce per aderire perfettamente alla realtà, risultando autentico e credibile.

È, in fondo, la lezione del suo amato Rossellini che si innesta nella tradizione della commedia all’italiana e che consente al regista di origini abruzzesi di mettere in scena pregi e difetti di un microcosmo in cui è possibile rispecchiarsi. Non c’è giudizio ma comprensione. Anzi, affetto.

Piace per questo; perché i suoi protagonisti sono simpatici antieroi, personaggi in qualche modo ai margini, ma pronti a grandi slanci. “Umani, troppo umani”, tutti lì a perpetuare il trilussiano insegnamento secondo cui “tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”.

E sono in effetti piccole le storie che Di Gregorio mette in scena. Semplici ma profonde, a loro modo universali. Costruite secondo un’impostazione minimalista che abolisce la superficialità.

Per questo ogni paragone tra il regista/attore romano e gli altri autori appare tutto sommato marginale: perché Di Gregorio assomiglia soprattutto a se stesso, al Gianni cordiale e perbene della vita reale, al bicchiere di vino bianco che lo disseta e consola, a quella Trastevere che lo ispira. È qui che prendono corpo i suoi racconti giocati tra divertimento e riflessione. Qui Di Gregorio trova quella cifra espressiva che gli consente di sublimare il proprio cinema nell’arte.

Pranzo di ferragosto, la dirompente opera prima 

Si diceva dell’esordio dietro la macchina da presa, finalmente nelle vesti di regista dopo una vita spesa tra i tanti mestieri che il cinema può offrire a chi lo ama. Operaio, tecnico, assistente, aiuto regista, sceneggiatore, attore. E (ottimo) attore Di Gregorio resta anche nelle sue pellicole. Protagonista addetto alla saldatura tra fiction e realtà. Spesso conservando il suo vero nome di battesimo (cosa che accade anche a molti altri personaggi dei suoi film) a suggello del fatto che il Gianni che appare sul grande schermo recita ma non finge.

È quel che accade sin dalla folgorante opera prima, Pranzo di ferragosto (2008), effervescente commedia low budget, ispirata dalle esperienze personali dell’autore, che ha per protagonista Gianni (Gianni Di Gregorio), single in età matura, il quale, in cambio della cancellazione di alcuni debiti col condominio dove abita assieme alla novantenne madre Valeria (Valeria De Franciscis), accetta di ospitare nei due giorni a cavallo di Ferragosto Marina (Marina Cacciotti) e Maria (Maria Calì), rispettivamente mamma e zia di Alfonso (Alfonso Santagata), amministratore del palazzo.

A queste si aggiunge Grazia (Grazia Cesarini Sforza), madre di un medico (Marcello Ottolenghi) amico dello stesso Gianni che, impegnato in un turno all’ospedale, non sa a chi lasciare la genitrice.

Tra capricci, manie e piccoli screzi, l’insolito quartetto darà filo da torcere al pazientissimo Gianni, il quale cercherà sempre più conforto nel salvifico bicchiere di “bianchetto”.

Ricorrendo ad un cast di anziane attrici non professioniste, Di Gregorio compie la felice scelta di non far recitare loro battute predefinite, ma di affidarsi a una sorta di canovaccio/linea guida che ne lasci libera la capacità d’improvvisazione.

È senz’altro questo l’elemento di maggior pregio di un lungometraggio ironico e scanzonato di soli 73 minuti che, sfidando i pregiudizi e i timori legati all’appeal di una storia legata alla terza/quarta età, offre uno spaccato fresco, tenero e spumeggiante della forza vitale che anima i “diversamente giovani”.

Valeria, Maria, Grazia e Marina sono tutt’altro che rassegnate al tempo che passa. In loro resta intatta la voglia di vivere espressa attraverso fughe notturne, avances sentimentali, vietatissime paste al forno da consumare in segreto.

Il divertimento dello spettatore va di pari passo con la riflessione e l’immedesimazione. Si ha la sensazione di conoscere già le quattro donne, involontari archetipi di un universo in piccolo già sperimentato: sono le nostre madri, nonne e zie. Le abbiamo già viste e ascoltate tante volte, magari distrattamente, presi dal turbinio di un mondo che corre troppo in fretta.

Si tratta di un effetto realistico reso alla perfezione non soltanto dalla spontaneità dei dialoghi e dalla naturalezza delle interazioni, ma anche dalla scelta formale di ricorrere, attraverso la camera a mano, a piani-sequenza immersivi nell’appartamento trasteverino e a primi piani che lasciano emergere, sottile, la vena malinconica che arricchisce poeticamente il racconto.

Un racconto ulteriormente vivacizzato dalla brillante colonna sonora di Ratchev & Carratello e dalle significative figure di contorno del Vichingo (Luigi Marchetti) – pittoresca espressione della romanità popolare – e del senzatetto straniero (Petre Rosu) accampato lungo il Tevere – embrionale elemento di richiamo a quella solidarietà universale destinata allo sviluppo drammaturgico in Lontano lontano – dal quale il protagonista acquista i preziosi cefaletti. Quegli stessi cefaletti che verranno serviti per l’improvvisato pranzo di Ferragosto con cui Gianni e le sue quattro primedonne terranno lontane, almeno per un po’, le insidie della solitudine e le ubbie della precarietà economica.

Prodotto da Matteo Garrone, Pranzo di ferragosto rappresenta un’autentica scommessa vinta. Rifiutato per anni dalle case produttrici, il film riscuote un successo ben presto destinato a valicare i confini italiani. Successo che porterà la pellicola ad ottenere un ottimo riscontro al botteghino e a fare incetta di numerosi riconoscimenti. Tra questi, meritatissimi, il premio Leone del futuro al Festival del cinema di Venezia 2008, nonché il David di Donatello e il Nastro d’argento 2009, entrambi per il miglior regista esordiente.

Gianni e le donne, la conferma del talento di Di Gregorio  

Se il Gianni di Pranzo di ferragosto deve vedersela con quattro vivaci signore agèe, l’omonimo protagonista del secondo lungometraggio di Di Gregorio è addirittura chiamato ad un’autentica immersione nell’universo femminile.

In Gianni e le donne (2011) il regista/attore romano torna ad indossare i panni del suo alter ego cinematografico per interpretare un mite baby-pensionato di circa sessant’anni alle prese con una moglie distante (Elisabetta Piccolomini), una figlia problematica (Teresa Di Gregorio) e una madre oppressiva e spendacciona (Valeria De Franciscis) che non esita a tormentarlo coi suoi capricci.

Per sfuggire al peso di un’esistenza grigia e monotona, l’uomo trova spesso conforto nel bicchiere di vino, sino a che, incoraggiato dall’amico Alfonso (Alfonso Santagata), non decide di dare una svolta alla propria vita rimettendosi in gioco e tentando una serie di approcci sentimentali. Ma quanto più questi si risolvono in goffi fallimenti, tanto più in lui cresce il timore di stare invecchiando. Un timore che, dopo l’iniziale smarrimento, andrà poco a poco a trasformarsi in consapevolezza e accettazione.

Spassosa cronaca di una crisi di mezz’età, Gianni e le donne torna ad esplorare, con la grazia e la leggerezza solite di Di Gregorio, il tema della vecchiaia da un diverso e pressoché opposto punto di vista rispetto a Pranzo di ferragosto.

Protagonista non è più la quarta età nella parabola compiuta delle allegre nonnine, ma quella fase della vita in cui si iniziano a percepire i primi segnali del decadimento fisico. Un decadimento che Gianni avverte, prima ancora che dalla schiena bloccata o dalle borse pesanti sotto gli occhi, dalle parole e dai gesti delle donne che tenta di approcciare: un improvvido paragone con un nonno, un bacio troppo casto, una serata “promettente” finita con una dormita sul divano.

È il sex appeal perduto (“So’ diventato trasparente! Prima portavi a casa un sorrisetto, ‘na cosa…”) a sconvolgere l’orizzonte esistenziale del protagonista, costretto a prendere atto del tempo che passa e ad accettare i cambiamenti che la vita impone.

Commedia divertente e al contempo malinconica, Gianni e le donne vince l’insidiosa sfida dell’opera seconda chiamata alla conferma del successo precedente, ricorrendo, come in Pranzo di ferragosto, a una struttura narrativa semplice, fluida e brillante che, pur lasciando meno spazio all’improvvisazione (eccezion fatta per la monumentale Valeria De Franciscis), conferisce al racconto quella credibilità e forza empatica che trovano nei lunghi primi piani del protagonista il giusto punto di connessione con lo spettatore.

Il Gianni del film è una sorta di Jacques Tati in salsa romana. La sua gentilezza, la simpatia, l’umanità tenera e ingenua fanno di lui una sorta di Monsieur Hulot trasteverino che alla pipa preferisce il bicchierino di bianco.

Siamo, insomma, alla conferma delle grandi capacità registiche e attoriali di Di Gregorio, il quale imbastisce un racconto dal registro fortemente realistico – ancora giocato, seppur con minor intensità, tra camera a mano e piani-sequenza – che a sorpresa lascia spazio ad un esilarante finale onirico e psichedelico aperto alle fantasie e ai sogni di Gianni.

Perché si può anche diventare vecchi, ma i desideri, fortunatamente, rimangono per sempre giovani.

Buoni a nulla ovvero la gentilezza al potere

A distanza di tre anni da Gianni e le donne, Di Gregorio realizza il suo terzo lungometraggio dal titolo Buoni a nulla (2014), piacevole commedia che vede ancora una volta protagonista il “digregoriano” Gianni (Gianni Di Gregorio), questa volta nei panni di un placido e bonario impiegato pubblico prossimo alla pensione, il quale, d’un tratto, non soltanto si vede procrastinare il pensionamento di tre anni, ma viene addirittura trasferito dal comodo ufficetto nel centro di Roma – dove si occupa “un po’ di tutto…e un po’ di niente” – ad un modernissimo ufficio della periferia.

È l’ennesimo sopruso che deve subire il malcapitato, già alle prese con una ex moglie ingombrante, una figlia che cerca di sfilargli la casa e un’anziana vicina che fa di tutto pur di dargli noia.

Come se ciò non bastasse, là fuori c’è un mondo “brutto, sporco e cattivo” che manifesta tutta la propria arroganza con auto parcheggiate che impediscono il passaggio e strisce pedonali sulle quali non si può che essere investiti.

Insomma, Gianni davvero non ce la fa più. La sua pazienza è arrivata al limite e minaccia di rovinargli la salute. Come rimediare? La risposta gliela fornisce chiara e tonda Raffaele (Marco Messeri), dentista con ambizioni psicoterapeutiche: “Tu ti devi incazzare!”. Insomma Gianni deve imparare a dire no, a farsi valere con gli altri, magari cominciando dalle piccole cose.

Seguendo il consiglio dell’amico, l’uomo ottiene risultati eccellenti: la sua salute torna ad essere perfetta, di notte riesce a dormire tranquillamente, in ufficio diventa il preferito della direttrice (Anna Bonaiuto).

È un cambio di registro a cui spinge anche Marco (Marco Marzocca), collega ancor più buono e disponibile di lui, il quale viene sistematicamente sfruttato dagli impiegati del suo stesso ufficio. I due “buoni a nulla”, così, stringeranno una sincera amicizia e si coalizzeranno, pur con risultati alterni, contro il vastissimo esercito dei maleducati.

Se la gentilezza è l’elemento preponderante del cinema di Di Gregorio, questa non poteva che venire celebrata con un film che ne rappresenta un vero e proprio elogio.

Con Buoni a nulla – pellicola che idealmente conclude quella può definirsi come la “trilogia di Gianni” -, il regista romano, messi in secondo piano camera a mano e piani-sequenza, imbastisce un racconto che procede per paradossi: se essere gentili diventa un modo per venire schiacciati, tanto vale trasformarsi in cattivi.

È la ricetta che carica di grottesco un racconto come sempre piacevole e divertente in cui il Gianni/Monsieur Hulot capitolino viene affiancato dalla verve comico-malinconica di un Marzocca completamente a proprio agio nei panni del goffo Marco.

Ne scaturisce un tenero buddy movie in difesa della mitezza in cui, riflettendosi approfonditamente sul cinismo e sulla mancanza di empatia dei nostri giorni, si allarga lo sguardo dal mondo della terza età a quello dei rapporti umani tutti.

È così che Buoni a nulla, pur tra leggerezza e umorismo, lascia emergere, rispetto alle opere precedenti, un tratto più amarognolo; una sottile vena pessimista che proprio nell’anzidetto paradosso coglie il senso di una sconfitta sociale. Il mite diventa perdente, il furbo si erge a vincente. Buoni a nulla diventa in tal senso un titolo da rimontare come un puzzle mal assemblato: essere buoni non serve a nulla. Ed è in tal modo che Di Gregorio invia il suo messaggio cortesemente provocatorio. Un messaggio teso quantomeno alla conciliazione delle due anime opposte; a una sorta di compromesso che, se non altro, consenta alla generosità e alla gentilezza di non venire schiacciate dall’egoismo imperante.

Perché, insomma, va bene essere buoni, ma passare da fessi proprio no!

Lontano lontano, la prova di maturità 

Nel 2019, dopo cinque anni di assenza, Gianni Di Gregorio torna sul grande schermo con una pellicola dal titolo Lontano lontano, “tenchiana” espressione – o forse soltanto suggestione – con cui si vuol indicare quella volontà di cambiamento che anima Giorgetto (Giorgio Colangeli) e “il Professore” (Gianni Di Gregorio), due anziani trasteverini stanchi della misera pensione che a malapena consente loro la sopravvivenza, i quali decidono di emigrare in un posto più adatto alle proprie tasche.

Coinvolto nel loro proposito anche l’ex giramondo Attilio (il compianto Ennio Fantastichini, qui alla sua ultima interpretazione), che “pare” avere gli agganci giusti, i tre, su suggerimento dell’esperto professor Federmann (Roberto Herlitzka), optano per le Azzorre e decidono di creare un fondo comune per le spese del viaggio. Ma quanto più si avvicina il giorno della partenza, tanto più sorgono in loro dubbi e incertezze.

Nel frattempo, Attilio, Giorgetto e il Professore stringono amicizia con Abu (Salih Saadin Khalid), un giovane immigrato d’origine maliana.

Partire, cambiare vita, ricominciare daccapo. Facile a dirsi quando la pensione è troppo bassa e il costo della vita troppo alto. Più difficile da farsi quando quella che ci si vorrebbe mettere alle spalle è una vita intera.

Lontano lontano è la cronaca di una settimana passata a preparare un viaggio o forse una fuga. Si tratta di un percorso che, prima ancora della partenza, ha inizio dentro ognuno dei tre protagonisti, chiamati a riflettere sulla propria condizione e su ciò che per loro vale davvero. Sono interrogativi esistenziali o si tratta soltanto di paura? Forse sono tutte queste cose insieme; o forse no.

A Di Gregorio – fortunatamente – non interessano le risposte, ma le riflessioni che le sue storie generano. E una di queste – probabilmente la più importante – viene da Fiorella (Daphne Scoccia), figlia di Attilio, che risponde così alle lamentazioni del genitore: “Ma perché, sei un poveraccio te, papà!? E dai! […] Un poveraccio è uno che nun c’ha da magna’, nun c’ha ‘na casa, nun c’ha da vestirse…Questo è un poveraccio, no te!”.

Una frase niente affatto consolatoria che offre uno sguardo lucido sulla realtà e consente di sviluppare la sottotrama di Abu, giovane immigrato clandestino che cerca di raggiungere il fratello emigrato in Canada. Una parabola, la sua, che, sovrapponendosi specularmente alle vicende reali del suo interprete, va a costituire l’ennesimo anello di congiunzione tra verità e finzione del cinema digregoriano.

È questo il momento in cui il realismo del cineasta romano assume la sua forma più politica: ai vecchietti liquidati con una pensione da fame, vessati da una burocrazia impietosa e costretti a lasciare le proprie case si aggiunge la storia di un bravo ragazzo proveniente dall’Africa, la cui paradossale “colpa” è quella d’essere povero.

S’incrociano così storie di emigrazione (sognata, in un caso, necessitata, nell’altro) dalle quali s’innesca quel processo di solidarietà dal basso che è cifra stessa del cinema di Di Gregorio. Una solidarietà che, in questo caso, assume la forma di una sorta di passaggio di testimone generazionale.

Raccontato ancora una volta con l’umorismo e la leggerezza proprie del regista romano, e sostenuto dalle eccellenti prove attoriali dei tre protagonisti (un immenso Fantastichini su tutti), Lontano lontano – vincitore del David di Donatello 2021 per la miglior sceneggiatura non originale – rappresenta senz’altro il frutto maturo della filmografia di Di Gregorio, il quale realizza quella che è la sua opera più sentitamente trasteverina. Una sorta di paradosso, visto il tema trattato. Ma quanto più si avvicina il momento del distacco fisico, ecco che Trastevere s’illumina della sua bellezza più umana e sincera: le chiacchierate al bar, gli incontri casuali, la veracità calorosa e accogliente, l’immancabile “bianchetto”.

Tutto si ritrova nella nostalgia “preventiva” di Giorgetto, indolente popolano che teme il “valico” di Porta Settimiana come l’attraversamento a nuoto dell’oceano, e del “Professore”, ex insegnante di latino costretto a vendere i propri libri per far cassa, nel cui disagio Di Gregorio individua l’emblema di una borghesia impoverita e di una società sempre meno interessata alla cultura.

Una nostalgia, la loro, che si trasforma in epifanico disvelamento: è l’amicizia il vero pharmakon. Non il mero rimedio alla solitudine, ma quel salvifico modus vivendi che rende grandioso persino il mangiare insieme una succosa fetta di cocomero. Perché, in fondo, Lontano lontano non è che un film fatto di pura, autentica condivisione.

Astolfo, quinta pellicola di Gianni Di Gregorio

I piani migratori dalla capitale programmati in Lontano lontano si trasformano in trasferimento forzato nel quinto lungometraggio che il regista romano fa uscire nelle sale a fine 2022.

Si tratta di Astolfo (2002), aggraziata commedia sentimentale in cui Gianni Di Gregorio, indossati i panni del protagonista che dà il titolo al film, racconta la storia di un settantenne professore in pensione che, costretto a lasciare il suo appartamento di Roma, trova riparo tra le colline di Artena, dove possiede un vecchio palazzo di famiglia.

Una volta sul posto, l’uomo avrà a che fare con una serie di singolari sorprese, ma soprattutto farà la conoscenza di Stefania (Stefania Sandrelli), con cui inizierà una tenera relazione amorosa.

Qui la recensione completa del film Astolfo

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