*Questa intervista è dedicata a Sara Khadim al-Sharia, campionessa di scacchi dell’Iran, che mentre traducevo le risposte del regista iraniano Ali Asgari disputava il Campionato Mondiale in Kazakistan senza il velo. L’intervista è inoltre dedicata a tutte le donne coraggiose del Paese. In memoria o in solidarietà.
Non è soltanto un bis. La bambina segreta-Until Tomorrow, secondo lungometraggio del regista iraniano Ali Asgari, ora al cinema dal 19 Settembre con Cineclub Internazionale Distribuzione, era stato presentato nella sezione Panorama della Berlinale, apparendo sulla stessa (buona) falsariga di Disappeareance, primo lungo dell’autore: storia di una donna coraggiosa in Iran, in qualche modo in lotta contro le difficoltà imposte dal Sistema, con un racconto in stile realistico condensato nell’arco di poche ore.
Così è, di fatto, per Until Tomorrow(Ta farda, nel titolo originale): niente di nuovo sul fronte mediorientale, almeno nell’opera dello stesso autore.
Ma bis e basta non è. Prima di tutto, perché Asgari è da anni voce autorevole nel cortometraggio, come conferma lo stesso Until tomorrow, sviluppato a partire dal corto La bambina (2014). Ma più ancora perché Until Tomorrow, già ben accolto, si è ulteriormente elevato all’attenzione di pubblico e critica per due circostanze speciali. La prima è stata la vittoria al MedFilm Festival, dove è stato insignito del massimo riconoscimento, il Premio Amore & Psiche. La seconda è la sua attualità urgente, con la deflagrazione delle proteste in Iran. “Ma è così da anni”, ci dice il regista: gli ultimi mesi sarebbero solo lo sbocco esplosivo di una situazione in fermentazione da almeno un decennio. Protagoniste, come nei film di Asgari: le donne. Del film e del suo contesto, l’Iran, abbiamo parlato col regista (non senza difficoltà). E non sono solo quattro chiacchiere di cinema.
Fereshteh studia e lavora in una tipografia a Teheran. Quello che i suoi genitori non sanno è che ha anche una figlia illegittima di due mesi. Quando il padre e la madre le annunciano una visita a sorpresa, Fereshteh deve trovare alla bambina un altro posto per la notte. Normalmente non sarebbe un grosso problema, ma col fiato sul collo il piano si rivela difficile. Con l’aiuto della sua sveglia compagna di stanza Atefeh, Fereshteh si lancia in un’odissea per la città. (Fonte: sinossi ufficiale dal sito del MedFilm Festival).
L’intervista
Until Tomorrow parte da un cortometraggio che hai realizzato nel 2014, La bambina. Perché aveva senso far evolvere quel progetto per svilupparne un lungo?
Sì, l’idea viene da un corto, ma di fatto è da due anni che volevamo girare un lungometraggio e stavamo valutando diverse idee. Discutendone con la mia co-sceneggiatrice (Alireza Khatami, n.d.R.), abbiamo pensato che l’idea della bambina risultasse ancora molto attuale rispetto alla situazione in Iran. Nel nostro Paese ci sono generazioni di giovani diverse dalla nostra. Ci sono giovani coraggiosi, intrepidi; non accettano che sia imposto loro cosa fare. Vogliono distinguersi dalle passate generazioni.
Cos’ha significato per te, dal punto di vista espressivo e della scrittura, adattare il corto al formato del lungo?
Pur pensando di trasformare il corto in lungo, era decisivo il fatto che il finale fosse luminoso e di speranza. Nel corto, invece, non era tale. Abbiamo dunque cominciato a scrivere Until Tomorrow a partire dall’ultima scena il primo giorno, per poi costruirvi attorno la struttura del film. Altra questione capitale riguardava la sfida di espandere un corto in un lungo mantenendo gli stessi elementi di struttura e trama.
Il film si svolge nell’arco di poche ore, e da questo aspetto della storia scaturisce il titolo Until Tomorrow. Sembra però esserci anche un valore metaforico, più profondo in questo titolo. È così? Lo potresti spiegare?
L’idea che il film si svolga in poche ore è la stessa del cortometraggio, con l’ovvia difficoltà, di cui ti dicevo, di svilupparlo nel formato del lungo. Ma la differenza principale, ribadisco, è stata nella nostra determinazione di concepire per Until Tomorrow un finale positivo, che potesse irradiare speranza. Pensare al domani significa pensare al futuro e farlo con speranza. Il primo significato del film, dunque, pertiene al registro realistico degli avvenimenti che si svolgono nella stessa giornata. La ragazza cerca qualcuno che le tenga il bambino fino al giorno seguente; quindi, nel film ricorre la domanda “puoi tenere il bambino fino a domani? (“until tomorrow”, n.d.R.). Il secondo significato è quello metaforico riguardante il futuro in generale e quanto possa succedere. Un futuro luminoso, ci auguriamo. Until Tomorrow, pertanto, evoca un domani di speranza.
Visto oggi, Until Tomorrow è un film che da un lato si collega, in alcuni temi, al tuo precedente lungometraggio, Disappeareance; dall’altro, a ciò che sta accadendo in Iran nelle ultime settimane, con le proteste sempre più intense di una parte della popolazione. In che modo pensi che il tuo film si connetta tanto alla tua filmografia, quanto ai recenti sviluppi della situazione del tuo Paese?
Quando ho cominciato Until Tomorrow pensavo in effetti a una trilogia che avesse come protagoniste tre donne. In Disappeareance c’è una ragazza al centro della narrazione, così come in Until Tomorrow. Quanto al rapporto del film con la situazione attuale in Iran, ciò che tu e altri vedete adesso non riguarda solo gli ultimi tre mesi ma va avanti da molti anni. Ci sono nel nostro Paese delle donne molto speciali che lottano per l’uguaglianza e per i diritti. Gli ultimi tre mesi costituiscono l’esplosione di una situazione che perdura da dieci, quindici anni, se non di più. Regole strane e ingiuste sono state imposte sempre più spesso alle donne.
Until Tomorrow, Fereshteh regge la bambina in braccio nell’oscurità
Se allora mi chiedi perché abbia pensato di realizzare questo film, ti rispondo semplicemente che ho pensato alla situazione attuale. E due anni fa, era già questa la situazione. Niente è cambiato negli ultimi anni. Ciò che si vede ora è un’esplosione di rabbia a lungo covata.
Nella sceneggiatura che hai scritto con Alireza Khatami, come nelle buone sceneggiature, la protagonista – in questo caso, Fereshteh (Sadaf Asgari) – è messa di fronte a una serie di difficoltà. Dette complicazioni hanno tutte e a che fare con il Sistema iraniano (culturale, legislativo, politico). In che modo avete concepito questa grande varietà di situazioni, sia drammatiche, sia di contenuto?
Abbiamo sì deciso di citare alcuni aspetti sociali e culturali a cui vanno incontro ogni giorno gli Iraniani, ma non volevamo semplicemente fare un reportage dei problemi o delle difficoltà. Ci siamo limitati a seguire la direzione in cui ci portava la storia, lungo la quale diventava naturale menzionare alcune questioni assai importanti nella società iraniana, come l’immigrazione o l’inflazione. Non volevamo però apporre alcuna enfasi o sottolineatura significativa: erano i personaggi e il dramma che ci portavano là.
Parlavamo della combattiva generazione delle giovani donne in Iran, a cui Until Tomorrow e il tuo cinema prestano così tanta attenzione. In particolare, che tipo di “lottatrice” è Fereshteh? L’hai descritta come una madre, o più come una giovane ancora ingenua? Ciò che fa, lo fa per la sopravvivenza rispetto all’arrivo dei suoi genitori – until tomorrow – o anche per cambiare, più maturamente, la sua situazione di donna e giovane madre?
Fereshteh è un personaggio potente. La sua è una lotta per la propria indipendenza, di donna in una società patriarcale che dice a lei e a un’intera generazione, soprattutto di donne, che cosa fare. Lei non è disposta ad accettare ciò che le viene dettato, quindi lotta per tutto. Questa è una caratteristica generazionale. Ci sono donne che come Fereshteh oggi in Iran lottano per ciò in cui credono. Non sono disposte ad accettare tutto ciecamente; vogliono essere libere e lottare per la propria libertà. Il film è dunque indicativo, simbolicamente, di questa lotta per la libertà che sta crescendo sempre di più in Iran. In Until Tomorrow, naturalmente, l’aspetto della libertà è rappresentato dalla volontà di tenere il bambino, ma vale come metafora di libertà in generale. Fershteh lotta per questo e scopre di avere dentro di sé il coraggio per farlo.
Il ritratto di una generazione in lotta emerge chiaramente in Fereshteh e nella sua amica Atefeh (Ghazal Shojaei), che l’accompagna e la sostiene; ma cosa mi puoi dire anche di alcune donne, di diversa età, che si vedono nel film, che non mostrano solidarietà verso la giovane? Lo fanno per paura delle conseguenze, o perché aderiscono sinceramente al sistema culturale dell’Iran?
Dico che queste donne nel film ci provano per quanto possono. Tutte vorrebbero aiutare, ma la maggior parte delle volte il posto in cui vivono, vale a dire certe zone di periferia, le condiziona fortemente, perché in quella parte di società il potere maschile è più forte. Così, si rassegnano a subire il filtro delle decisioni maschili. Hanno speranza, ma non hanno potere, specie le donne anziane. Però un passo avanti lo fanno. Nel film, ad esempio, si vedono delle vicine di Fereshteh che le consentono di portar qualcosa nelle loro case. Cercano dunque di aiutare, ma, ripeto, non hanno abbastanza potere per farlo. Questa generazione, mi viene da dire, è quella che non ha lottato, è il contrario della protagonista. Per me era importante mostrare due generazioni opposte: una che non ha lottato o non aveva possibilità di farlo; l’altra che sta lottando.
Stiamo parlando di Fereshteh come della protagonista, ma stiamo forse sottovalutando la presenza della bambina. Non a caso, il cortometraggio stesso s’intitolava La bambina. È forse lei la vera protagonista, anche se a un certo punto, viene sballottata quasi come fosse un pacco postale. Lo spettatore rischia persino di dimenticarsi del fatto cruciale che si tratti di una vita umana da proteggere. Che ruolo hai pensato per la bambina nel film, al di là della sua passività apparente? Com’è stato lavorare con un neonato dal punto di vista tecnico?
Di fatto la bimba riveste un ruolo molto importante nel film, come hai intuito. Ecco perché, di base, è presente nella maggior parte delle scene. Anche se non parla, è molto importante che il pubblico ne avverta la presenza, di bambina silenziosa. Rappresenta la prossima generazione della società iraniana. È stata una delle principali questioni di cui abbiamo discusso con la mia costumista, convenendo poi di metterle un vestitino rosso molto speciale, affinché il pubblico ne notasse sempre la presenza. Per la stessa ragione, per me era importante avere una bambina vera, intendo dire, un essere umano, nonostante la difficoltà di reperire un neonato di un mese.
Until Tomorrow, Atefeh (a sinistra) con Fereshteh che tiene in braccio la bambina
Come avete risolto questo “casting insolito”, ma necessario per ragioni espressive?
Dici bene: necessario. Non volevo assolutamente che si adoperasse una bambola o qualche sostituto artificiale. Il primo giorno abbiamo girato con una bambola, ma quando ho visto il tutto nel monitor, mi sono reso conto che non funzionava e ho chiesto alla mia squadra di trovare una bambina vera. Dopo un paio di giorni siamo stati fortunati a trovarne una, ma è stato difficile, perché era inverno, faceva freddo e dovevamo fare molta attenzione. I genitori sono stati sul set tutto il tempo. Come mi è capitato di dire in qualche intervista, la neonata è l’attrice più importante e costosa del film perché dovevamo convincere i genitori, cosa che siamo riusciti a fare anche pagando una certa somma. Ma alla fine era giusto che fosse così: era assolutamente necessario che si trattasse di una neonata in carne e ossa.
Lo svolgimento della vicenda in poche ore; la moltiplicazione degli ambienti; la presenza minacciosa delle autorità (come quelle che Fereshteh e Atefeh incontrano all’esterno dell’ufficio di Gelerah, che sappiamo essere stato chiuso all’improvviso per l’arrivo della polizia). A quale di questi aspetti ti sei affidato maggiormente per alimentare la tensione del film, che in alcuni momenti sembra quasi un thriller e non solo un dramma?
Al di là degli aspetti sociopolitici, volevo che il pubblico si sentisse attratto dal film e sentisse l’impulso di continuare a vederlo: restando con i personaggi, attraversando la storia. Servivano, quindi, elementi di tensione: il thriller oltre il dramma. Nonostante il tentativo di realizzare un film d’essai, per me era importante che il pubblico si connettesse con il personaggio e con la storia, e la tensione doveva risultare funzionale a questo obiettivo espressivo. Lo spettatore si deve sentire, al cinema, nella stessa situazione della protagonista.
Pur essendo un film drammatico ed emotivamente intenso, sembra anche che in alcuni momenti per te sia stato necessario stemperare questa tensione. Come e perché l’hai fatto?
Sarebbe stato impossibile mantenere questo stato di agitazione lungo tutto il corso di Until Tomorrow. Anche se ci avessimo provato, sarebbe stata una tortura per lo spettatore. Ho pertanto voluto inserire alcuni piccoli momenti di silenzio o di humour affinché anche il pubblico potesse respirare e rilassarsi, prima di passare al round successivo della tensione. Era veramente importante che il pubblico non percepisse la tensione per tutto il tempo.
In generale, nel tuo approccio alla regia, con quali indicazioni hai voluto orientare la fotografia, il montaggio e i movimenti della macchina da presa per rendere fortemente realistico lo stile di Until Tomorrow?
Anche se il risultato finale del film è abbastanza realistico, quasi da documentario, il lavoro con la macchina da presa e la messinscena sono state attentamente pianificate. Resta mia consuetudine, tuttavia, mantenere delle parti di improvvisazione con gli attori e col direttore della fotografia (Roozbeh Rayga, n.d.R.). Voglio sempre che sul set gli interpreti trovino spazio per improvvisare sia rispetto ai dialoghi, sia rispetto alla gestualità. Col direttore della fotografia, controllavamo tutto in tempo reale e dove necessario facevamo i cambiamenti opportuni sia nella recitazione, sia nella messinscena.
C’è un rapporto molto stretto, dunque, tra recitazione, inquadrature e visuali.
Sono molto aperto all’improvvisazione, nonché a ricevere nuovi spunti sul set. Per questo, non abbiamo fatto prove con gli attori: volevo conservare una genuinità realistica. A questo effetto, però, doveva contribuire anche il movimento della macchina da presa. Così, ci siamo spesso affidati a long take. Nel risultato che poc’anzi definivo documentaristico e realistico, volevo che il pubblico si sentisse immerso in situazione.
Il finale segna una svolta per Fereshteh, ma resta comunque un finale in qualche modo aperto, nel senso che la sua situazione appare sospesa. A livello emozionale, nel messaggio finale del film, cosa pensi che prevalga per la giovane donna: il coraggio, la paura, la solitudine?
Il finale può essere considerato aperto nel senso che ogni spettatore può trarre dalla visione del film ciò che desidera e perché resta da capire come si affrontino Fereshteh e i suoi genitori. Tuttavia, dal punto di vista di ciò che volevo comunicare, credo che lo spettatore lo intenda abbastanza chiaramente. Il pubblico capisce ciò che Fereshteh sta facendo alla fine del film e per me l’idea più importante è che, dopo tutte le sue battaglie e le innumerevoli difficoltà, ne colga la decisione di essere coraggiosa. Di essere più forte della paura e della solitudine. Il film sarebbe potuto continuare per un’altra ora, ma quanto vediamo alla fine, con tutte le luci che si accendono, arriva allo spettatore in maniera efficace.
Hai già un progetto al quale sei sicuro di voler dare la priorità, oppure pensi che osservare e vivere la situazione dell’Iran di questi mesi potrebbe darti nuovi spunti se non, viceversa, metterti dei limiti operativi?
Sono prevalentemente in fase di scrittura. Mi sto focalizzando su diverse idee e vorrei scrivere una sceneggiatura per un progetto in Italia del sud, uno in Turchia e uno in Iran, ma al momento mi mancano conferme. Quanto alla situazione in Iran, è molto tesa. C’è molta ispirazione e ne vengono fuori molte cose, ma sto cercando per lo più di concentrarmi su me stesso e sulle idee di scrittura che ho per vedere cosa succederà. Allo stesso tempo, comunque, ho concluso due corti, attualmente in fase di postproduzione.
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