Una sarabanda di colori sfavillanti, forme perturbanti, corpi scomposti e oltraggiati, scorre fulminea sullo schermo, incenerendo lo sguardo dello spettatore, irrimediabilmente frastornato dalla parata barocca messa in scena da Alejandro Jodorowsky. La montagna sacra (1973) non concede pause, se ne infischia della correttezza estetica e politica, sottopone le forme a torsioni estenuanti per poi, con auto-ironia liberatoria, prendersi gioco di sé.
Questa favoletta oscena, narrata da uno sciamano guitto e guascone, è introdotta dalla sequenza rigorosa del rituale, prassi particolarmente cara al regista cileno, sempre teso a disporre le figure in un afflato di armonia geometrica. Il tenue verde acquamarina delle prime inquadrature inonda l’occhio, preparandolo all’imminente girandola di luci, mentre il Cristo jodoroswskyano sradica agevolmente i fiori che lo inchiodavano alla croce dell’io.
“Non voglio più essere io” diceva Gozzano
E Jodorowsky, sedotto oltre misura dal motto poetico, conduce per mano i rappresentanti più rilevanti della decadenza borghese fino ai confini del nulla, tappa necessaria per sbarazzarsi di sé. L’io riottoso e colonizzatore cede il passo ad un altro io, il “Grande Io”, ove la vanità dell’identità si dissolve in una soggettività che accoglie l’irruzione dell’altro. L’immortalità, specchietto per allodole gaiamente agitato dallo sciamano, è una burla, e quindi non resta che riderne, rinunciando definitivamente alla paccottiglia escatologica.
La dimensione temporale de La montagna sacra
Con riferimento alla dimensione temporale, il cammino mostrato da Jodorowsky pare il precedente esoterico del Falso movimento di Wenders, ed è sorprendente notare come radici culturali così diverse possano produrre opere che, in qualche modo, risuonano. Certo, spesso l’eccesso di visionarietà dell’autore cileno rischia di mettere a repentaglio la solidità dell’impianto narrativo, ma è un pericolo che vale la pena correre, considerando il valore estetico raggiunto in alcune sequenze. Jean-Luc Godard fece più volte notare come poche migliaia di fotogrammi riescono, di solito, a giustificare lo sviluppo di chilometri di pellicola.
Jodorowsky si consuma nel dare un corpo all’immagine, sfinendola (e sfinendosi) fino a trascendere in un’indagine fisiologica da obitorio. È un corpo donato, oltraggiato, rinnegato e, infine, riacquisito. Passione della carne.
In ultimo, anche se non condotta su una piattaforma critica marxista, la crociata messa in scena per smascherare impudicamente il teatrino degli orrori borghesi è sempre ben accetta (repetita iuvant).
La risposta della critica
Certa critica cinematografica si è sbarazzata assai velocemente di Jodorowsky e Arrabal (altro illustre rappresentante del movimento Panico), liquidandoli come maldestri prosecutori dell’opera del maestro Luis Bunuel. Se è vero che nessuno dei due può confrontarsi con l’acutezza e la raffinatezza espressiva del padre del surrealismo, è però oltre modo riduttivo rinunciare a prendere in considerazione l’atipicità di un cinema che, considerata la quiescenza e il piattume contemporaneo, non solo è da salvare, ma da promuovere intensamente.