“Grazie a un soggetto che si distingue per rara originalità e in virtù di un cast di attori con volti che riescono a incarnare meravigliosamente un mondo reinventato, il film ci racconta una storia commovente, con delle scene, dei costumi e una fotografia che aiutano a creare delle inquadrature pittoriche degne di un’opera d’arte”.
Con questa motivazione, Tria – del sentimento del tradire, di Giulia Grandinetti, ha vinto la diciannovesima edizione del prestigioso festival Corto Dorico.
Giulia Grandinetti premiata a Corto Dorico con le giovani attrici di Tria
Tria è un film folgorante per qualità estetica, la cura dei costumi e delle scenografie. La sinuosità della macchina da presa costruisce un’invincibile fascinazione seguendo la storia di tre sorelle legate da un destino che provoca il tradimento. Giulia Grandinetti indaga sul sentimento del tradire a partire dal trauma della nascita di una nuova vita, portando una delle giovani protagoniste a concepire il tradimento come una forma di protesta nei confronti della società, della famiglia, della natura stessa. L’originalità di quest’opera è data dal continuo alternarsi di realismo e immaginazione, forme del passato e un futuro inquietante, trovando nelle tre attrici protagoniste il punto focale di un’opera che coniuga la bellezza formale con la profondità emotiva di un racconto visionario, sensuale e mortuario. Un film profondo e leggero come il battito d’ali che segna il destino dei personaggi, un tradimento che sembra un colpo di scena ed è, invece, la messa in scena della fragilità delle paure umane.
Per entrare meglio nel mondo di Tria, Abbiamo intervistato la regista Giulia Grandinetti .
Come nasce un film come Tria?
Tria è nato da una ferita personale, che mi ha lasciato una sensazione che non sapevo come gestire. Il sentimento dell’essere stata tradita, la percezione di un patto che veniva a mancare. Come faccio spesso, ho cercato di elaborare i miei dolori nel lavoro, immergendoli in pensieri che diventano ricerche, letture, la base dell’urgenza di una storia per un nuovo racconto, da cui è venuto fuori, appunto, Tria.
Oltre che regista, sei stata attrice e ballerina. Come s’innestano tutte queste altre arti nella tua pratica e visione cinematografica?
Il cinema è la settima arte, una sintesi di tutte le possibili modalità che il linguaggio espressivo può concedere. Un film è un connubio di tutte le arti. Della danza per la relazione tra i corpi degli attori e il corpo della macchina da presa, poi c’è il discorso legato alle musiche e al ritmo. E tutto un aspetto che afferisce alla luce che potremmo collegare non solo alla fotografia, ma anche alla pittura. Ci sono, insomma, moltissimi elementi che vanno a toccare tante sfumature dell’arte e io credo che, più qualcuno fa esperienza in vari ambiti artistici, più la regia può essere in qualche modo ricca di scelte.
In Tria c’è una grandissima cura estetica, i costumi, la fotografia, le scenografie. Come hai lavorato con i tuoi collaboratori?
Io sono una regista molto esigente e vado d’accordo con persone che sposano il mio modo di lavorare. Quindi che amano lo studio, la ricerca, lo scambio intellettuale, il tentativo di creare qualcosa insieme e parlo di tentativo perché non sempre questo riesce. Con la squadra che ho creato per Tria ho passato tanto tempo insieme, cercando di scambiare idee, ragionando sul fatto che stavamo lavorando su un determinato costume con la costumista Martina Latorre, ma anche con la direttrice della fotografia Eleonora Contessi e le scenografe Luna Ranalli e Valeria Polieri, domandandoci cosa potesse funzionare e cosa no. Per Tria c’era questa scelta: che non ci fosse un confine leggibile, una demarcazione tra un reparto e l’altro, ma che tutto fosse, in qualche modo, avvolto in un’atmosfera unica. Anche perché il film è stato girato in pellicola e sono state fatte delle scelte legate al tipo di colore che poi volevamo far risultare. In Tria abbiamo la percezione di una tragedia che, però, tutto voleva essere tranne che cupa da un punto di vista cromatico. Posso dire che, non solo sul set, ma anche nella post produzione, chiedo tanto a persone che hanno voglia di lavorare come me e io sono molto grata a tutti, perché è l’unico modo, dal mio punto di vista, per fare un lavoro complesso, ma che poi diventa preciso nel suo obiettivo.
Da dove nasce il mondo distopico descritto in Tria? Sembra una sintesi tra passato e futuro.
La risposta a questa domanda è legata non solo alla storia raccontata nel film, ma riguarda anche il cinema. Secondo me, quando si racconta qualcosa, non bisogna parlare solo alla nostra epoca, perché, in qualche modo, il cinema è legato alla nostra immortalità, non solo alla responsabilità di tracciare dei contatti con il mondo d’oggi. A me piace sempre immaginare che un film riesca quando intercetta, contemporaneamente, qualcosa che ci riguarda adesso e qualcosa che ci riguarderà sempre. Questo è stato il tentativo che ho voluto mettere nella scrittura di Tria e nella sua realizzazione. La distopia è una forma che permette di giocare tantissimo su questo, perché consente d’inventare dei mondi che non esistono o reinventare quelli che sono già esistiti o di modificare delle leggi, delle consuetudini umane, che riteniamo date una volta per sempre. Questo diventa qualcosa di molto potente nella riflessione e nella ricreazione del contemporaneo.
Come contestualizzi Tria all’interno della tua filmografia?
Io sono partita con un’opera indipendente intitolata Alice and the Land that Wonders, un lungometraggio che è stato in qualche modo la mia scuola o, come la definisco io, la mia opera zero. Una specie di campo di battaglia in cui mi sono buttata con grande incoscienza per capire se, effettivamente, avrei voluto fare questo nella vita. Se, dopo sette anni, non solo non mi sono stancata, ma ho avuto altre mille idee, mi sono detta che effettivamente è quello che voglio fare. Dopo questo lungometraggio, ho cominciato quello che è il percorso più canonico, quello che di solito viene consigliato, e ho diretto tre cortometraggi, con difficoltà diverse: GreenWater, GuineaPig e Tria, appunto, che è il mio terzo, come dice in greco antico il suo titolo.
Che significa per te vincere un festival come Corto Dorico?
Non mi aspettavo questa vittoria, anche guardando la qualità della selezione e la tipologia così varia dei cortometraggi presentati. Temevo che Tria non potesse essere compreso fino in fondo. Alla sorpresa, si accompagna la felicità di aver vinto un festival così prestigioso. Tanto più che la giuria era composta da professionisti che seguo e ammiro da tempo. Poi c’è anche da dire che è il mio primo festival nelle Marche e mi onora particolarmente vincere un premio nella mia terra d’origine, quindi non nascondo una sfumatura di piacere aggiuntiva.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho un nuovo corto scritto da tempo che vorrei girare in Albania: s’intitola Majonezë. E poi sono in fase di sviluppo del mio nuovo lungometraggio, che potrei definire la mia vera opera prima, perché avrò finalmente con me una produzione alle spalle, la Lupin Film, e due fantastici produttori, Riccardo Neri e Vincenzo Filippo. È un film molto ambizioso, che è nel mio computer da tanti anni e che girerò in Francia. S’intitola Jaune et Bleu e non vedo l’ora di realizzarlo.
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