Pinocchio è un film diretto da Guillermo del Toro uscito in sala dal 4 dicembre e disponibile dal 9 dicembre su Netflix.
LA STORIA
Siamo in Italia, come nel romanzo di Collodi, ma circa cinquant’anni dopo Collodi. Tra la fine della Prima e l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, in un contesto storico che condiziona i personaggi, Geppetto è un padre che ha perso il figlio Carlo in un bombardamento. Lo spirito del bosco rimane colpito dal dolore del genitore che non accetta la perdita; e decide di dare vita ad un burattino di legno che lo stesso Geppetto aveva costruito in un momento di disperazione.
LA RECENSIONE
È decisamente incredibile come Guillermo del Toro sia riuscito a prendere una fiaba (apparentemente o meno) lontanissima da lui, riplasmarla, lasciarne intatto il nucleo emotivo e adattarla plasticamente al suo universo, rinnovandola e trasformandola in qualcosa di incredibilmente duro, potente, evocativo, delicato.
Pinocchio diventa così una fiaba assolutamente dark e inquietante, come d’altronde era nelle intenzioni del suo autore, ma invece di portare avanti una morale un po’ sterile ed essiccata come “non dire bugie”, si fa allegoria nerissima della guerra, innestando tutte le ossessioni tipiche del regista de La Forma Dell’Acqua.
Il Tempo è il tiranno che governa il mondo, e costringe gli uomini alla crescita, alla mutazione, alla trasformazione: tutti i personaggi dei mondi immaginati o ricreati da del Toro tentano allora di compensare a questa paura cercando di fermarlo.
Come ne La Spina del Diavolo, come nel Labirinto del Fauno, ma anche in Mimic e Cronos, al centro del film Pinocchio la guerra si intreccia alla vita, con la trasformazione suprema e assoluta, quella più dolorosa, la più impervia, eppure la più inevitabile: il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Tutto questo è raccontato da visioni oscure e bellissime, da invenzioni oniriche e visive di primissima qualità, da suggestioni geniali e trovate surreali: la dimensione prettamente politica allora non sembra per nulla ostacolare il percorso visionario della messa in scena, anzi le due componenti si miscelano alla perfezione rendendo incredibile la loro compatibilità in una storia rimodellata ma già esistente.
La poetica di del Toro si adatta, malleabile e profondissima, alla matrice culturale e sociale della rivisitazione antifascista: rivelatrice, in questo senso, una frase dello stesso Guillermo: “quando le persone mi dicono ‘oh, la fantasia è una grande via di fuga’, io sono solito rispondere ‘non credo. La fantasia è un grande modo per decifrare la realtà’”.
È in questo modo che il regista rielabora e rende personale, e poeticamente coerente, i materiali più differenti, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura all fumetto, dal cinema d’autore ai b-movie.
Ed è per questo che Pinocchio racconta toccando corde profondissime la ribellione al regime dove tutti vogliono ingabbiare e comandare ogni tentativo di anticonformismo, ogni movimento diverso dall’ordine.
Le musiche di Alexandre Desplat sono un corollario quanto mai appropriato: perché le note del musicista tra i meno allineati sottolineano un campionario di creature che rivelano quello che sono e portano in una dimensione altra eppure straordinariamente vicina alla nostra.
Dalla Vita e la Morte immaginate come sorelle chimere provenienti dalla mitologia greca ai conigli scheletrici d’oltretomba che riecheggiano Comencini, tutto crea un coro che suona all’unisono accordi altissimi, un inno all’autonomia di pensiero che prima distrugge i totem della storia (Collodi in primis, ma anche Disney) e poi li rovescia come un guanto rendendoli ugualmente coerenti e credibili (la favola di Pinocchio era il valore del conformismo, ora diventa spinta alla ribellione).
Senza dimenticare mai di seguire il ritmo giusto, quello del cuore: “accade quello che accade. E, alla fine… andiamo via ”