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È reale? di Gianfranco Pannone

Ancora co sto Pasolini!?

La Roma e il Lazio di Pasolini

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pasolini film

Ancora co sto Pasolini!? Potrebbe rimproverarmi qualcuno dopo tanto scriverne e parlarne nell’anno della sua celebrazione. Ebbene sì; magari, però, visto da un’angolazione diversa, al tempo stesso geografica ed esistenziale. Dunque l’artista e intellettuale (virtù doppia che è di pochi) che attraversa la complessa storia recente del nostro Paese, ma concentrandomi su quel Lazio e su quella Città eterna che lo hanno accolto lungo tre decenni in modi e tempi diversi.

La Roma dei primi anni sessanta è una città in forte trasformazione ma sempre molto simile a sé stessa, al suo essere pigramente “caput mundi”. Comunque vivace e contraddittoria. La città sta abbandonando un po’ per volta la sua anima insieme provinciale e cosmopolita: i caffè letterari perdono smalto, il traffico automobilistico la travolge, sorgono ovunque i nuovi quartieri del “Sacco di Roma”. E il cinema la rappresenta con tutti i suoi piccoli e grandi paradossi: madre puttana e al tempo stesso ossessionata dal nuovo; un nuovo caotico e intriso di individualismo.

Oggi possiamo definire il “cattolico” Fellini, il “laico” Antonioni e l’”eretico” Pasolini, profeti inascoltati, che, mettendo al centro dei loro film Roma (Antonioni con L’eclisse, Fellini con La dolce vita, Pasolini con Accattone), ebbero l’intuito e anche la grazia di comprendere i guasti di un nuovo accolto troppo in fretta, oltre che il coraggio di raccontare lo scempio antropologico nell’Italia del dopoguerra.

Pasolini, che dei tre autori ci arriva come il più complesso, persino controverso, fu il monaco spoglio dei suoi abiti che si apre agli ultimi, a coloro di cui la cosiddetta società moderna si vergogna, avventurandosi nella Roma più profonda e preborghese. Quale film più di Mamma Roma (1962) racconta una città bella e ferita, che vede nel personaggio interpretato da Anna Magnani la sua espressione più genuina?

Per capire questo “mondo a parte” basta soffermarsi non solo sul rapporto di autentico amore che Pasolini instaurò con Roma, ma con il territorio laziale in genere, dalla campagna romana e le sue baraccopoli poi assalite dai nuovi quartieri popolari, alle lande pregne di storia etrusca e medievale della Tuscia, tra Tuscania e Chia, intorno a Viterbo; fino a scendere a sud di Roma, nelle “terre redente” di Latina un tempo Littoria, e soprattutto di Sabaudia, immersa nel Parco Nazionale del Circeo.

Sì, quello che oggi mi resta più impresso è un Pasolini che si sporca le mani giocando a pallone con i ragazzi delle borgate romane, e che sceglie i volti dei “popularis”, spesso venuti dal Sud ad abitare le borgate romane, a partire da Franco e Sergio Citti e poi Ninetto Davoli; o, fuori dal coro, contro i suoi stessi amici intellettuali di sinistra, dando il giusto valore alle città razionaliste dell’Agro pontino macchiate dall’essere nate sotto il fascismo; e ancora, spendendo le sue preziose parole in favore dell’Università della Tuscia, quando parlare di cultura nell’Italia “minore” e provinciale sembrava persino superfluo.
Tutto questo accadeva nel Lazio, una terra ricchissima di storia, profonda, ancestrale, persino primitiva. Dentro e intorno a Roma, come in pochi altri luoghi d’Italia, storia e natura finiscono col comporre una sol cosa e questo Pasolini lo sapeva bene. In un documentario per la tv diretto nel 1974 da Paolo Brunatto, Le forme della città, il nostro è ai piedi del paese tufaceo di Orte, in provincia di Viterbo e al confine con l’Umbria, che sorge su una collina, circondato da antiche mura. E ne esalta l’armonia, dettata da un mai sopito rapporto uomo-natura, che fa del Lazio e più in genere del Centro Italia una terra di visioni irripetibili perché legate a un passato che non c’è più, ma che, soprattutto per motivi storico-antropologici, “si rifiuta” di scomparire.

Ecco, in questo percorso tra cinema e vita, dove tra l’altro si inserisce un’originale vena documentaristica, trovo qualche altro indizio del legame che unisce Pasolini al Lazio, proprio agganciandomi a Sabaudia, in provincia di Latina, dove sono cresciuto. Riprendo volentieri da qui perché c’è qualcosa di particolare che è accaduto lungo la mia vita: essermi sempre trovato, che fossero le spiagge ai piedi della Maga Circe o la Roma delle periferie o ancora la Tuscia intorno a Viterbo, nei luoghi in cui Pasolini visse e girò i suoi film più importanti. A volte casualmente, certe altre “inseguendo” il Maestro, che purtroppo non ho fatto in tempo a conoscere. O, più esattamente, l’unico incontro con Pasolini che conservo passa per mio padre. Avevo tredici anni in quell’estate del ‘75 che precedette la sua morte violenta e ricordo papà dire a me e ai miei fratelli: “Lo vedete quel signore là in fondo? E’ Pasolini.” E oggi vedo tanto rispetto e ammirazione nelle sue scarne parole.
Alcune belle fotografie dei primi anni settanta ce lo mostrano, ormai famoso e benestante, tra le dune di Sabaudia in compagnia di Alberto Moravia e Dacia Maraini, che al nostro ha dedicato di recente un bellissimo libro in bilico tra corrispondenza personale e sogno. Avevano casa lì, davanti al mare. E all’epoca si recavano spesso a Sabaudia, con loro c’erano anche Bernardo Bertolucci, spesso insieme a suo padre Attilio, ed Enzo Siciliano. I suoi amici gli erano andati in qualche modo contro: quella era la terra delle città nuove volute da Mussolini e puzzavano ancora di fascismo! Lui non esitò un momento a difendere non solo le dune “africane” davanti Sabaudia, ma quella stessa città dal forte impianto razionalista.
Più avanti, sempre interpellato ne Le forme della città, camminando tra le dune di Sabaudia battute dal vento invernale, Pasolini affermò che il vero fascismo da temere a distanza di vent’anni dall’ultima guerra, era quello del consumismo. Da fiero antifascista, insomma, non vedeva tanto il pericolo nel ritorno del ventennio, ma in una società dei consumi sempre più oppressiva. Aveva ragione? Credo sì.

Per anni ho frequentato il Parco della Caffarella, tra l’Appia antica e la Via Appia Nuova, a due passi da quella che fino a qualche tempo fa è stata casa mia. Ci portavo a passeggiare Costanza e i nipoti quand’erano piccoli, ma ci ho girato anche due film documentari, al centro dei quali c’è la figura di Pasolini: L’America a Roma (1998) e poi Viaggio intorno alla mia casa (2001).
Il finale de L’America a Roma, che nel 1998 dedicai agli stunt-man di borgata che furono protagonisti di tanti “Spaghetti western”, l’ho realizzato tutto lì. Guglielmo Spoletini (in arte William Bogart), il mio testimone numero uno, lo immagino vedere da lontano tre messicani a cavallo che lo fissano a loro volta. Uno di loro è Pasolini, vestito da peone, in un intenso primo piano “rubato” a Requiescant, western terzomondista (incredibilmente realizzato tutto intorno a Roma, tra il villaggio yankee della Elios, sulla Via Tiburtina, e gli esotici valloni della Magliana) diretto nel 1967 da Carlo Lizzani, mio insegnante Csc e poi ancora guida preziosa, con Lou Castel protagonista, e che vede, appunto, PPP nei panni di un prete rivoluzionario, circondato dai suoi attori di borgata, Ninetto Davoli in cima a tutti.

Luoghi della memoria: la Caffarella, l’Appia nuova, il Tuscolano con il Quadraro, e poi Tor Pignattara, il Prenestino il Casilino…; luoghi “marginali” cari a Pasolini, che ospitavano borgate su borgate; baraccopoli da cui spesso provenivano comparse, figuranti e anche qualche attore, tutti con la testa rivolta alla vicina Cinecittà. E poi, più avanti nel tempo, Nanni Moretti che in una delle scene più intense di Caro diario (1993) va a visitare con la sua inseparabile Vespa lo scarno monumento all’Idroscalo, nei pressi di Fiumicino, dove Pasolini fu assassinato. E’ tutto vivo davanti a me.

Ancora oggi Roma e i suoi dintorni sono impregnate di Pasolini e degli anni che lo videro protagonista della scena culturale e politica italiana, malgrado siano cambiate tante cose. Al Mandrione come al Pigneto, resistono tuttora i segni della Roma pasoliniana, per esempio; a dire il vero più in certe facciate delle casette un tempo abusive che nei volti delle persone, oggi in gran parte omologate.
E oggi anche mia figlia Costanza e i suoi giovani amici sanno chi siano Pasolini e il suo mondo. Molto più di quanto non conoscano un Fellini o un Antonioni. Perché?
A mio giudizio Pasolini, oltre la facile santificazione di una certa vulgata, che, non senza retorica, lo eleva al pari di un Antonio Gramsci, insomma, a un vero e proprio santo martire della Chiesa cattolica, ha lasciato un segno profondo perché seppe sempre coniugare l’“alto” e il “basso”, un discorso profondamente etico e poetico con la più terragna realtà che ci circonda; binomio che a Roma e nel Lazio, regione isolata per più secoli dagli effetti della Controriforma oltre che da una non trascurabile millenaria autoreferenzialità papalina, è ancora oggi presente, vivo.

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I luoghi fisici della Tuscia, per esempio, terra, anch’essa pontificia ma più umile, che mi è cara perché è lì che da anni, nel paese-scrigno di Barbarano Romano, ho la mia casa/rifugio, lo testimoniano. Penso a Totò e Ninetto Davoli, che, innocenti frati francescani in Uccellacci e uccellini (1966), parlano con i passeri ai piedi della splendida Chiesa di San Pietro a Tuscania; e a Giovanni che ne Il Vangelo secondo Matteo (1964) battezza i suoi fedeli sulle rive del piccolo fiume Chia (proprio di fianco alla torre che PPP avrebbe comprato nei primi anni 70,), all’occorrenza trasformato nel Giordano. Luoghi, per così dire, a portata di mano, al tempo stesso semplici e austeri, come la terra cui appartengono, lavica e profonda. E, tornando di nuovo su Roma, sopra la Vaccareccia, nel cuore del Parco della Caffarella, vedo con gli stessi occhi il set de La ricotta: la crocifissione di Cristo e dei due ladroni, con il povero Stracci morente, ai cui piedi è seduto Orson Welles/regista disincantato.

Sono immagini vive quelle che ho di fronte, come dicevo, al tempo stesso poetiche e sfrontatamente reali, crude, drammatiche. E saltano alla in mente questi versi da Le ceneri di Gramsci, che Pasolini dedicò alla sua Roma nella seconda metà degli anni cinquanta:

Stupenda e misera città, che mi ha insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini.

 

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