La memoria del mondo di Mirko Locatelli è scritto, come i film precedenti, insieme alla sceneggiatrice e compagna Giuditta Tarantelli. Una condivisione che, come hanno affermato nel 2018, durante l’intervista dopo l’uscita di Isabelle, si estende anche alla regia. Lui dice di cercare “gli occhi di Giuditta quando ha l’impressione di tradire troppo i personaggi che hanno costruito insieme, perché in quel caso ha bisogno del suo incoraggiamento per andare avanti”.
Tornano insieme in questo intenso lavoro che è La memoria del mondo, prodotto da STRANI FILM con RAI CINEMA, presentato nella sezione Nuovimondi del 40° Torino Film Festival. E ora in sala a partire dal 2 Marzo.
Una storia sincera, nella sua complessità. Riflessione sull’appartenenza, su come riconoscersi creature del mondo, presente e passato.
La memoria del mondo La trama
Adrien (Fabrizio Falco), biografo dell’artista visivo Ernst Bollinger (Maurizio Soldà), si ritrova coinvolto nella storia di cui è autore, coprotagonista del capitolo conclusivo della vita artistica del grande Maestro.
Immersi nell’atmosfera rarefatta di una laguna invernale, i due uomini, accompagnati da un giovane barcaiolo, Giulio (Fabrizio Calfapietra), condivideranno l’esperienza di un pellegrinaggio laico alla ricerca di una donna scomparsa, ritrovandosi ad esplorare territori interiori inaspettati e a riconoscersi figli di una memoria comune (Dal sito ufficiale del film).
‘La memoria del mondo’: Fabrizio Falco e Maurizio Soldà
La memoria del mondo Il viandante sul mare di nebbia
Quattro anni dopo Isabelle, Mirko Locatelli torna a girare in Friuli. Un paesaggio, questa volta, ancora più suggestivo grazie alla fotografia di Paolo Rapalino, che si sofferma su grotte, lagune, riflessi, nei colori rigorosamente invernali.
Il blu dell’acqua nella scena iniziale, si ripete, a contrastare i marroni più o meno accesi, nel trascolorare delle sfumature. Dipinti che a tratti sfumano e diventano foschia, attraversati da Adrien, nuovo viandante sul mare di nebbia, nel suo vagabondare insieme al Maestro.
Anche il suo cappotto nero aderente evoca il viandante di Friedrich, a sostituire gli abitini a fiori di Arianne Ascaride in Isabelle. Ma non ci sono soggettive qui; bensì campi lunghi in piani sequenza. Non ci si sofferma mai sui volti, quasi il dolore di ognuno fosse condiviso e universale. Non si pedinano i personaggi nella loro individualità, come ne I Corpi estranei, quando Filippo Timi rendeva l’indicibile sofferenza inquadrato molto da vicino.
Trieste, la bella signora (così definita da Locatelli nella piacevole chiacchierata di qualche anno fa), non compare più, se non nel Magazzino 26, lo spazio dell’installazione permanente che si sta allestendo, mentre Adrien scrive la biografia di Bollinger, si aspettano i materiali, e si va alla ricerca della moglie scomparsa del Maestro.
Questa sparizione diventa molto presto simbolica. La sua ricerca, allegoria di una perdita che non è solo quella dell’affetto terreno, ma appunto della memoria, la memoria del mondo. Non a caso, il villaggio originario di Bollinger è affondato e i suoi ricordi personali sono un tutt’uno con quelli di un passato personale e collettivo.
Thriller dell’anima e teatro della mente
“Nella ‘nostra acqua’ che è anche il caos, si trovano le scintille infuocate dell’anima del mondo…queste forme corrispondono alle idee platoniche…un’espressione filosofica degli archetipi psicologici” (Jung).
Archetipi, inconscio collettivo, miti, simulacra: anche di questo parla Adrien quando fa sentire la sua voce. Voce narrante, e soprattutto meditativa. Un aedo contemporaneo che non descrive eroi, né le loro gesta, ma vuole costruire una narrazione sapienziale e circolare.
La laguna con le sue restituzioni (un corpo, un foulard) non può non considerarsi metafora dell’inconscio che, interrogato a fondo, rivela un elemento dopo l’altro, senza fretta. E senza fretta alcuna si susseguono le scene ne La memoria del mondo. A volte sembrano ripetersi quasi identiche, ma è lo stato di sospensione che conta, l’attesa, e ogni attesa ha un che di sacro, di fiducia nella fertilità del terreno intriso di acqua, foglie, radici.
Quando vediamo i tre uomini in barca (senza umorismo, né avventura, se non, ripetiamolo, dell’anima), non importa da dove vengano o dove siano diretti. Un’investigazione, la loro, che ha bisogno di poche parole, solo quelle necessarie. E quando, ancora, Giulio si fa carico di tutto il peso del Maestro, è il mito di Enea e Anchise che si rinnova. Su tutto, campeggia la stravagante, solida struttura dell’albergo Caneo di Grado, che affonda le sue radici sulla laguna.
Chissà quanti sopralluoghi e quanta accuratezza per individuare posti così altamente emblematici!
Dichiarazioni di Mirko Locatelli
«Nel film tutto è in equilibrio, gli ambienti sono evocativi di un tempo perduto, luoghi dimenticati dall’uomo come simboli di un’antica civiltà, appannati, scoloriti: ogni luogo è un’idea di luogo, ogni stanza un’idea di stanza, scarnificati dal superfluo perché i personaggi possano manifestarsi come idoli. Corpi, barche, case, isole sospese sull’acqua e avvolte nella nebbia; oggetti, persone e animali sono concepiti come visioni fantastiche che emergono dalle brume come ricordi lontani. Giulio, Adrien e Ernst sono corpo, parola e simbolo, una trinità pagana votata alla trasfigurazione, alla metamorfosi, tutti padri di un unico mondo e figli di un antenato comune».
Il regista Mirko Locatelli
La memoria del mondo e la sua solennità
La memoria del mondo affascina per la sua solennità e, nel contempo, per il patrimonio comune, i grandi interrogativi di sempre. Non ci sono dubbi su come questo ultimo film di Locatelli costituisca un salto nel suo fare cinema, nell’estetica e nei contenuti. Un’opera matura, che ha tutta la malia di inquadrature e fotografia perfette. Di un linguaggio che, se pure appartenga già al regista (abbiamo sempre ammirato la giusta distanza tra sé e la materia filmica) sa contenere e dominare le ansie più profonde.
Ancora un passo avanti nell’equilibrio della narrazione, in un respiro che si è fatto ancora più ampio.