Presentato alla 40esima edizione del Torino Film Festival, parte della sezione Fedeli alla linea, Cinque stanze di Bruno Bigoni arriva al cinema dal 25 Settembre . Distribuisce Altamarea Film.
Al regista abbiamo fatto qualche domanda per capire meglio il suo film e tutto quello che porta con sé, dalla scelta del bianco e nero al modo in cui sono trattate certe tematiche.
La genesi di Cinque stanze di Bruno Bigoni
Da cosa nasce l’idea del film?
Per rispondere a questa domanda devo fare un passo indietro. Il cinema, per tanto tempo, è sempre stato specchio della realtà e di una precisa identità. Con il passare del tempo, però, è diventato uno specchio opaco, scuro dove ci sono solo ombre e figure che si muovono. In tutta questa poca chiarezza mi sembrava importante cercare di mettere in luce alcuni aspetti di quello che io vedo e sento intorno a me: prima di tutto il rapporto uomo-donna, non tanto e solo come coppia, ma un rapporto che va al di là di quello. Con questa continua violenza, non solo fisica, che si esprime sempre più spesso, mi è venuta l’idea di cercare di sviluppare e di raccontare una storia in un modo diverso, trovando una chiave innovativa, con un linguaggio che potesse non essere scontato e stereotipato.
In più il film racconta anche la storia di un’incapacità, di un uomo senza qualità, di qualcuno che cerca invano di capire chi è e non riesce mai a farlo. O forse lo capisce tardi, quando ormai tutto è perso.
Bianco e nero e colore
Sicuramente è particolare la scelta del bianco e nero. Alla luce di quello che hai appena detto, immagino sia una scelta legata al discorso delle ombre.
Innanzitutto il cinema nasce in bianco e nero e, in più, io volevo quasi smaterializzare qualunque forma di emozione o di sentimento che avesse il protagonista, salvo i momenti in cui lui ricorda, sogna, immagina qualcosa che non c’è più, cioè la moglie giovane, quando quella tra loro era veramente una storia d’amore. In quei momenti il colore torna fuori, come se in qualche modo lui riuscisse a recuperare, anche solo per un attimo, quell’emozione che, però, è talmente potente e forte che si spegne quasi subito.
E anche questo colore che viene usato al quale fai riferimento non è proprio un colore pieno.
No, è il 10% di quello che sarebbe un vero colore. È quasi scolorito: è una pennellata, non un colore forte. Ma mi serviva per sottolineare che in quel momento lui sta provando qualcosa.
Il protagonista di Cinque stanze di Bruno Bigoni
Volevo riflettere sul protagonista e sulla scelta di focalizzarsi completamente su di lui. Intorno a lui ruotano tanti personaggi femminili, dalla moglie, alla figlia, all’amante. Personaggi che cambiano mentre lui rimane fisso, sempre lo stesso.
Lui ha un cambiamento nel momento in cui muore la moglie e viene lasciato dall’amante (perché quella tra loro non è mai stata una vera storia d’amore). Lui in quel momento (il momento massimo in cui viene abbandonato e deve fare i conti con sé stesso) comincia a capire tutto quello che ha sbagliato nella vita precedente. E in Cinque stanze raccontiamo solo quel momento: i tre mesi prima della morte della moglie e i tre mesi dopo.
La scelta di lasciare lui anziano è dettata dal cercare di analizzarlo e approfondirlo di più? Come a dirgli guarda cosa ti sei perso?
Lui è sempre uguale perché è nella vita reale, ma è anche dentro il suo sogno, nei suoi ricordi e, allo stesso tempo, nel tentativo di recuperare quel sogno che è stato un sogno d’amore. Tutte le scene che lui ha con la moglie giovane sono momenti di felicità, quindi lui non può cambiare, può solo cercare di ricordare. E il ricordo è l’unica arma che ha per cercare di tornare, in qualche modo, umano. Ma questo non gli basta, perché sarà la morte della moglie, una morte di cui lui non si rende nemmeno conto (non capisce che la moglie è malata), a cambiarlo. Questo momento è lo spartiacque.
Dopo, invece, è solo un uomo che cerca di recuperare qualcosa della sua umanità con grande fatica.
Non è un film sulla morte
Un altro elemento che, oltre al colore, mi ha colpito molto, è la scelta di mantenere una sorta di pudore nel film. Ultimamente sembra diventato quasi la prassi nel cinema, spesso anche in maniera gratuita. Qui, invece, accade il contrario. Come mai hai adottato questa scelta?
È una bella domanda questa. Quando tu tratti materie incandescenti come dolore, sentimenti, morte, sofferenza, caduta (perché questo non è un film sulla morte, ma sulla caduta e sull’incapacità di alzarsi) ci vuole una discrezione, un’etica che rispetta i personaggi. Io sono per un cinema etico che rispetta i suoi personaggi. Come nel documentario bisogna saper spegnere la telecamera nel momento in cui bisogna spegnerla per rispetto di quello che si ha davanti, nel cinema di finzione ci vuole una specie di autocensura, una sorta di etica che porta a cercare di raccontare il dolore e la sofferenza nel modo più onesto e leggero possibile. Non so se leggero è la parola giusta, ma è quella che mi viene più immediata.
Come hai giustamente detto, infatti, Cinque stanze non è un film sulla morte e sul dolore. Sono centrali e tutto ruota attorno a loro, ma, allo stesso tempo, non sono il fulcro della narrazione. E per questo Cinque stanze non è il classico film dove si piange per forza e nel quale, fin dall’inizio, si sa in che direzione si andrà. Si discosta da questo.
Mi fa piacere che me lo dici perché l’intenzione era proprio quella di cercare di raccontare qualcosa in modo lieve, con una scelta, anche di movimenti di macchina, di inquadrature, di lavoro degli attori che non fosse mai né troppo né troppo poco. L’obiettivo era trovare un equilibrio per la messinscena che fosse sempre molto attenta.
Il titolo
Perché hai scelto Cinque stanze come titolo? Ogni capitolo è segnato da una stanza, ma si possono leggere anche come stanze metaforiche. Anche perché in base al luogo i personaggi hanno un approccio diverso nei confronti degli altri e della vita in generale.
Sì, sono da leggere anche in senso metaforico. Infatti posso dirti che la prima stanza è più legata a un concetto di incapacità; la seconda all’abbandono nel senso lato del termine, cioè essere lasciati soli; la terza alla solitudine (una malattia contemporanea molto più diffusa di quanto si possa pensare); la quarta all’amore come qualcosa che viene sempre adattato, tirato, spinto, chiuso dentro qualcosa e l’ultima al corpo che è l’altra parte che teniamo sempre nascosta e che, in realtà, spesso, parla molto più di quello che dovrebbe.
Ovviamente queste sono parole simboliche che cercavano di dare un senso a questa separazione, per cercare di raccontare questa storia in un modo frammentato, ma anche attraverso dei luoghi. Per esempio la camera da letto è un luogo particolarmente importante perché lì accadono cose importantissime.
Una frase per descrivere Cinque stanze di Bruno Bigoni
Chi dunque ha creato questo labirinto di esitazioni, questo tempo di presunzioni, questo campo seminato di mille inganni, questa porta dell’inferno, questo paniere traboccante di astuzie, questo veleno che ha il sapore del miele, questo legame che incatena i morti alla terra? Hai scelto questa frase per accompagnare il press book del film e mi sembra abbastanza evocativa di quello che si vede sullo schermo. Alla fine c’è veramente questo grande labirinto di esitazioni. Anche perché lui esita nel cercare di andare a fondo e capire cosa lo ha allontanato dalla moglie, lei esita nel rivelargli la verità. Allo stesso modo esitano anche gli altri personaggi coinvolti.
La frase è stata messa apposta perché in qualche modo riusciva a raccontare con parole molto più nobili di quelle che posso usare io il senso di questo film.
E ce n’è un’altra che può essere utile a riassumere bene il film ed è di Re Artù:
Siamo andati alla ricerca di avventure perché i nostri cuori non sapevano più inventarne.
Questo potrebbe essere molto legato al protagonista che cerca, fuori dalla sua vita quotidiana, qualcosa che non potrà mai trovare, ma che non può fare a meno di cercare, perché è quasi insito nella natura maschile andare alla ricerca di avventure. Almeno così ci dice Re Artù.
E invece, a proposito della lettera (e delle lettere) volevo chiederti come hai avuto l’idea di usare tutto questo come escamotage?
Le lettere sono il tentativo che la moglie fa come un ultimo atto d’amore. Nonostante quello che lui ha fatto nei suoi confronti da quando è morta la bambina, lei gli lascia qualcosa. E questo mi sembra molto in linea con quello che una sensibilità femminile potrebbe fare di fronte alla mostruosità del genere maschile.
Tecnica e recitazione
Volevo farti una domanda sulla tecnica e sulla recitazione. Non so se è una sensazione dettata dall’impostazione della recitazione o dalla voce fuori campo usata per esternare i pensieri, ma, in alcuni momenti, mi è sembrato di vedere un film che cerca di far capire che quello che stiamo vedendo non è la realtà, quasi come una rappresentazione teatrale. Non che la struttura o la costruzione del film siano teatrali, è più una sensazione. È una cosa voluta?
Io di teatrale in questo film non vedo nulla. Forse è una suggestione che può scaturire dal fatto che ci sono pochi attori e la storia si svolge all’interno. A me, anzi, sembra che la finzione cinematografica abbia una sua forza proprio in questi elementi.
Forse è più un concetto di straniamento anche la divisione in capitoli e la voce fuori campo, come se fosse una scansione letteraria.
Riferimenti e ispirazioni di Bruno Bigoni per Cinque stanze e non solo
C’è un tipo di cinema o ci sono determinati autori dai quali prendi ispirazione o che segui particolarmente?
Sì perché in qualche modo vengo da una formazione cinefila. Per me il cinema è sempre stato prima di tutto visione. E questa cosa è molto presente anche nel mio modo di fare cinema. Pensando a questo film, anche se non c’entra nulla, c’è un po’ Cassavetes, Bergman e c’è anche molto cinema francese, come quello di Garrel, Bresson. Cioè c’è il cercare un’idea di asciuttezza, andare al cuore di quello che si vuole raccontare e anche un’idea di un’estetica molto semplice e chiara. In questo senso il bianco e nero è anche una scelta stilistica precisa. Il modo di raccontare quella storia è in bianco e nero anche perché secondo me il mondo oggi è in bianco e nero, non a colori.
Anche se so che è una sfida perché quando si dice bianco e nero tutti si mettono le mani nei capelli. Non è una cosa fatta a caso, ma è stata una scelta formale e molto rischiosa, come tutto il film, rispetto a quello che è oggi il mercato del cinema in questo paese.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli
La recensione: ‘Cinque stanze’ Una storia originale di ordinarietà