
Zizilhuo è una piccola città della Cina dove la Rivoluzione Culturale di Mao Tze Tung ha lasciato in eredità miseria e indifferenza verso la vita, dove uomini e donne aspettano qualcosa che sembra tanto il Godot di Beckett. Il regista Dayong racconta la città fantasma attraverso le storie dei suoi abitanti, appartenenti a due minoranze cinesi, i Nu e i Lisu, che trascorrono i giorni facendoli passare uguali uno dopo l’altro.
Tre capitoli – voci, ricordi e innocenza – per descrivere socialità, pensieri e problemi della ghost town. C’è Yuehan, il pastore della chiesa cristiana, che vive in compagnia del padre John “il vecchio”, a sua volta pastore e imprigionato dal regime comunista per avere seguito gli insegnamenti dei primi missionari occidentali, giunti alla fine degli anni venti.
Tra le strade polverose e popolate da cani randagi, gatti e galline, una donna cerca di trovare un equilibrio tra l’amore per la propria figlia e l’infelicità di un matrimonio combinato andato male e al quale non può sottrarsi.
Nella città fantasma, svagarsi, per tanti, significa bere. Fino a quando non ti ritrovi alcolista emarginato, anche dalla chiesa, dove gli ubriachi non possono entrare. Un bambino, abbandonato a se stesso fin da piccolo, vive come può tra periferia e foreste. Storie d’amore, consumate intensamente all’inizio, finiscono per generare vagabondi alla ricerca di un lavoro con mogli frustrate da una vita di fatiche, litigi e miseria.
Un bambino, abbandonato dai genitori da piccolo, vive tra foresta e periferia, una sorta di Mowgli metropolitano che insegna agli altri piccoli diseredati come cavarsela e, perché no, divertirsi,
Il racconto scivola sullo schermo fotografando la vita di Zizilhuo per tre ore, a volte appesantito da indugi eccessivi, altre riuscendo nello scopo di trasmettere il senso di meccanica umanità della città fantasma. Forse risicati i racconti in prima persona degli abitanti, che quando ci sono catturano l’attenzione e conferiscono al documentario una dimensione narrativa classica che non guasta, soprattutto in considerazione dell’assenza di una voce che racconti: scelta azzeccata da un punto di vista cronachistico, ma che toglie qualcosa alla dinamica.
Manlio Melluso