In Sala

In Time

“In Time” è un film in cui convergono tutti i cliché immaginabili della cinematografia science fiction: una pugnalata al cuore della settima arte

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Anno: 2012

Distribuzione: Medusa

Durata: 109’

Genere: Fantascienza

Nazionalità: USA

Regia: Andrew Niccol

 

Justin non scherziamo. È da stupidi, non farlo. Torna negli ‘N SYNC, è meglio per tutti, fidati. O a Disney Channel, che è ancora meglio.

In Time è un film in cui convergono tutti i cliché immaginabili della cinematografia science fiction. Non è il caso di sintetizzare la trama: i minuti scorrono velocemente, come si evince proprio dal plot di questo film, e l’unica cosa (ammirevole) che ha fatto Andrew Niccol, regista e sceneggiatore di questa pugnalata alla settima arte, è stata farmi rendere conto di quanto sia prezioso il tempo e di come sia indegno sprecarlo a recensire porcate di questo genere. Grazie Andrew, te ne sarò per sempre grato. Mi hai insegnato il valore della vita. Adesso ritirati però.

Tagliamo corto: nel futuro, spariranno le banconote; “il tempo è letteralmente denaro e il processo d’invecchiamento si ferma a 25 anni, l’unica maniera per restare vivi è guadagnare, rubare o ereditare tempo”. C’è questo Will Salas (Justin Timberlake) che ha una mamma che, secondo questi originali meccanismi d’invecchiamento, ha un aspetto che fa rivalutare il concetto stesso di incesto. Nei primi minuti del film ci aspettiamo che il buon Will salti addosso alla piacente mammina e, quando questo non accade, quasi ci stupiamo e speriamo che la sua presunta omosessualità possa dare una svolta alla trama che ci accingiamo a seguire. Non accadrà nulla di tutto ciò. Peccato. La provocante mammina morirà a causa di un autista di autobus particolarmente taccagno e il buon Will assisterà alla sua dipartita, tenendola fra le braccia in stile michelangiolesco, suggerendo una versione futuristica della Pietà, piangendo e urlando in una piazza deserta. Che tristezza. Evitando di infierire sulla tremenda sceneggiatura ad minchiam, fatta di dialoghi al limite del grottesco (“e adesso cosa facciamo?”, risposta piccata “quello che è necessario fare!”), uno potrebbe dire: “Vabbè, è il genere, la fantascienza suggerisce per natura situazioni poco verosimili, è questa la sua forza”.

Anche Elio Petri (per fare un esempio a caso) nel 1965 si cimentò con questo genere: La decima vittima, però non era nulla di tutto ciò. Ursula Andress non correva per due ore di film su tacco 12 cm, come la nostra Sylvia Weis (Amanda Seyfried), una che il regista vuole far passare per femme fatale, quando invece ha una conformazione facciale che ricorda in modo impressionante Stewie Griffin. Marcello Mastroianni non faceva incidenti su spider con triplo cappottamento mortale – che, come minimo, “ti spezz’ la noce del capocollo” (come direbbe l’immenso Lino Banfi, lui si, da Oscar) -, riprendendo immediatamente conoscenza e facendosi una gran risata come il nostro Justin Timberlake che, non contento, dispensa pure perle di saggezza alla viziatella compagna di avventure.

Degni di nota sono senza alcun dubbio i brutti ceffi del film: dei ragazzoni dall’espressione “finto-duro” che terrorizzano la città armati di pistole e cappellini alla Michael Jackson. Justin, torna con gli ‘N SYNC, dai. Ti è andata pure bene, hai fatto The Social Network con David Fincher, non pretendere di più. Pensa anche a noi, ché il tempo è una cosa preziosa.

Riccardo Cammalleri

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