Cosa può essere più rivoluzionario e, proprio per questo incompreso e inaccettato, in un Paese come l’Iran, di una giovane donna che vuole ad ogni costo apprendere l’antica arte del Tanbur – uno strumento a corde di origini orientali, dal manico lungo, suonato in diverse tradizioni musicali popolari dell’Asia Centrale e nello specifico in Iran – e con mille espedienti si reca dal suo maestro, anziano e malato, un tempo anche famoso concertista, che vive nella città di Gouran, nel nord dell’Iran? Uno strumento religioso, il Tanbur, dal suono melodioso, con il quale si eseguono canti sacri ma non solo: in una società che impone (o vorrebbe a tutti i costi imporre) alle donne pesanti ed anacronistiche restrizioni, Pegah, la giovane protagonista, non si arrende e persegue la sua strada. Presentato in anteprima europea al festival Mente Locale Visioni sul Territorio, il documentario Song of the Wind, di Soudabeh Beizaei, racconta una storia simbolica dell’Iran odierno, prima dell’ultima rivolta, figlia in realtà di un’onda di ribellione che da anni si ingrandisce e non si ferma.
Song of the Wind: la protesta nell’aria
“Non ti attaccare a questo mondo perché non è niente/ Come un’alluvione senza fonte è vuoto e senza senso/ Voi ricchi e possidenti/ Sappiate che la vita è breve/ Come raccogliere i frutti rimasti in un orto”.
Così recita una delle canzoni cantate dal Maestro Taher Yarveisy, che ha condiviso l’ultimo periodo della sua vita, oltre che con l’anziana moglie, anche con un’allieva molto testarda, Pegah, pittrice e musicista di Yazd. “In quel periodo ho fatto molti disegni – racconta la giovane donna mostrando alcune delle sue opere – che rispecchiavano le mie emozioni: sentivo un’oscurità che mi passava dentro, non avevo altra scelta che accoglierla così da farla passare il prima possibile”. La regista, Soudabeh Beizaei, nota attrice di film di finzione iraniana (protagonista di A Man of Integrity premio della giuria al Festival di Cannes del 2017), qui al suo esordio nella regia di un documentario, ci conduce nell’Iran di pochi mesi precedente alle ultime, infuocate proteste. Anche attraverso un canale apparentemente ‘innocuo’ come quello della musica, passano tante rivendicazioni: quella all’autodeterminazione come donna, artista e musicista; quella alla libertà di movimento e di pensiero; quella, infine, a non piegarsi a quanto imposto e a non rinunciare ai propri sogni.
Libertà o morte
Ed è lo stesso sogno dell’intero Iran, un Paese che lotta disperatamente per la libertà, ma dove continuano gli scontri e la rivolta della gente, soprattutto dei giovani, contro un regime brutale e senza scrupoli. Le manifestazioni non si fermano, nonostante gli arresti e le repressioni, il carcere per i giornalisti, i registi e gli artisti dissidenti e la morte di tanti, troppi manifestanti. Fra tutte, la più eclatante e scandalosa, l’omicidio di Masha Amini, la giovane curda uccisa mentre si trovava in custodia della polizia religiosa perché non avrebbe indossato correttamente il velo. Molti gli iraniani che rinunciano ai loro ruoli in Iran o prendono le distanze dal governo (giornalisti e sportivi che si ritirano e lasciano il lavoro, i giocatori della nazionale iraniana che si rifiutano di cantare l’inno), molti coloro che lottano dall’interno e dall’esterno del Paese, tanta la solidarietà internazionale, Ma quante vite umane dovranno ancora essere sacrificate da una polizia sedicente ‘religiosa’ che spara sulla folla uccidendo anche i bambini? Il motto dei giovani iraniani presto diventerà un aut-aut: libertà o morte. Un prezzo troppo alto da pagare.