Connect with us

Interviews

Lamberto Bava, generi e generazioni cinematografiche

Il Ravenna Nightmare Film Fest premia Lamberto Bava con il suo massimo riconoscimento. La nostra intervista

Pubblicato

il

Il Ravenna Nightmare Film Fest ha omaggiato con l’Anello d’oro, il suo massimo riconoscimento, Lamberto Bava: regista che porta con sé una parte importante della storia del cinema italiano. Suo nonno, Eugenio Bava, è stato scenografo, scultore e direttore della fotografia (tra i suoi lavori, il kolossal Cabiria, 1914). Suo padre, Mario Bava, regista, direttore della fotografia, sceneggiatore, è considerato un maestro del cinema horror italiano in tutto il mondo (ma anche del giallo, dello spaghetti western, del futuro pulp, tutti generi inventati da lui in Italia). Lamberto Bava è stato il continuatore di un cinema che si è chiamato di genere, di serie B, a basso costo, un artigianato del grande schermo più apprezzato all’estero che nel nostro Paese.

Lamberto Bava (1944) ha lavorato nel mondo del cinema come regista, sceneggiatore, produttore, nonché attore e montatore. Esordisce alla regia insieme al padre nel film televisivo La Venere d’Ille (1978), specializzandosi nel genere horror, di cui è stato uno dei più prolifici autori italiani. Tra i suoi lavori, Macabro (1980), Demoni (1985), Demoni 2 (1986), Morirai a mezzanotte (1986), Le foto di Gioia (1987), La maschera del demonio (1989), Body Puzzle (1992). Molto attivo anche nella regia televisiva, ha diretto, tra gli altri, le minisere Fantaghirò (1991-1996) Caraibi (1999), L’impero (2000), Sei passi nel giallo (2010-2012).

Al Ravenna Nightmare Film Fest, come evento di chiusura finale, Lamberto Bava ha presentato il suo Ghost Son (2006), un horror dalla forte matrice edipica, in cui un uomo morto finisce con il possedere il proprio figlio, desiderando e tormentando la moglie/madre. Un senso del mostruoso tipico del genere nella sua rappresentazione del represso e del bandito dalla società, che ci mette di fronte alla contrapposizione tra normalità e diversità, nell’alveo del socialmente accettabile o no che si trasforma in abominevole, osceno.

Il bizzarro e il macabro trovano nella storia di Lamberto Bava la condensazione della nostra fascinazione per l’horror, la visione cinematografica di incubi che la cultura occulta e censura. Ghost Son è un’emersione di fantasmi repressi, la rappresentazione maschile dell’ansia d’abbandono dell’uomo/bambino e la sua fantasia di riunificazione orale con la madre, il primo oggetto d’amore del maschio, in una sensualità tutta individuata nel possesso del seno che nutre (e Lamberto Bava insiste su questo elemento visivo).

La protagonista, Laura Herrings, così come nel più classico degli horror (sin dalle sue origini letterarie gotiche), è il punto focale dell’opposizione tra un mostro maschile e una vittima femminile che è anche oggetto del desiderio, dando origine a un tipo di violenza fortemente sessualizzata. Una sorta di relazione sadica che riflette impulsi di matrice patriarcale.

Ghost Son

Intervistare Lamberto Bava è ascoltare un pezzo importante, a lungo storicamente trascurato, del nostro cinema.

Com’è cambiato il cinema horror di genere dai tempi in cui ha iniziato come aiuto regista e poi regista?

Quando ho capito che il cinema era quello che m’interessava fare nella vita, mi ci sono buttato a capofitto e ho cominciato come terzo aiuto regista. Allora il terzo aiuto regista portava più che altro i cappuccini al regista o alla troupe. Il mio primo film è stato Terrore dallo spazio, il regista mio padre, l’anno il 1965. Da allora sono cambiate tantissime cose. Quel tempo mi sembra preistoria. Io ebbi l’ambizione di proporre a mio padre storie che potessero essere superiori alle sue. Lui lavorava moltissimo con le immagini e mi sembrava che i suoi film, dal punto di vista della scrittura, potessero essere migliorati. Invece mi sono poi reso conto che il suo era, già così, un grandissimo cinema, soprattutto quando poi ho iniziato a farlo come regista. Quanto sia cambiato il cinema da allora a oggi è difficile dirlo, perché non si riesce a veder tutto e tanti film, spesso i più particolari e ricercati, passano solo dai festival. Una cosa, però, posso dirla, anche rischiando di passare per un dinosauro: con il digitale tutti credono di poter raccontare una storia e fare un film, purtroppo. Questo genera tanto cinema anche insignificante, in particolare dal punto di vista tecnico e visivo, tanto più che il digitale di oggi ha una piattezza che la pellicola non aveva.

Dice che oggi i registi sono meno preparati?

Io vengo da una certa scuola di registi, di quando si faceva il cinema commerciale, ma di alto livello tecnico, quello che non era solo «Io faccio la mia opera», ma che ha dovuto subire determinate angolature della produzione. Potevamo anche fare un cinema più o meno povero o ricco di mezzi, ma sapevamo sempre come girare determinate scene, perché venivamo da anni di gavetta come aiuto. Quando ho cominciato io erano tempi completamente diversi. Si facevano tantissimi film. Oggi è sempre più complicato. Si fanno pochi film ed è ancora più difficile trovare i soldi. Sarà per questo che mi sono stancato di fare cinema.

Quali sono i suoi ricordi più memorabili di quella stagione da aiuto regista?

A parte il fondamentale apprendistato con mio padre, ricordo avventure pazzesche come quella vissuta con Ruggero Deodato come aiuto per Ultimo mondo cannibale, quando sono stato anche morso da un serpente. Ruggero Deodato ci ha portati a girare nella giungla, in posti dove si arrivava solo in canoa, luoghi impensabili. Arrivavamo sul set alle 7 di mattina, dopo due ore di pullman. In questo posto tu salivi quattrocento gradini per arrivare a delle grotte dove facevamo le riprese, con tutte le scimmie che ti passavano sulla testa. E, quando arrivavi su, con il caldo che faceva, poi bisognava cominciare a girare; invece noi volevamo già tornare a casa perché sfiniti. Un’altra delle location era in un altro posto sperduto nella giungla, raggiungibile solo con i battelli. Bisognava risalire un fiume per un chilometro e mezzo. Lasciavamo tutte le macchine da presa lì, coperte perché non ci piovesse sopra, tanto, chi ci arrivava lì? E poi in mutande ci buttavamo nel fiume, in modo che la corrente al ritorno ci riportasse all’alloggio, vedendo passare uccelli di ogni tipo, serpenti: una di quelle cose che dici confesso che ho vissuto.

Più che un film un’esperienza.

Un’esperienza davvero, piena di cose, quelli erano film. A quei tempi c’erano dei produttori che ti facevano fare film così. Oggi è molto difficile. I produttori, e io sono stato per vent’anni produttore di me stesso, sono diventati un’altra cosa, cioè si va a chiedere i soldi alla Rai o Mediaset e loro, se il progetto convinceva, te li davano. Non investivi soldi tuoi come capitava allora. Il produttore, quello che rischia, oggi non c’è più.

 

Poi ha continuato con altri mostri sacri del cinema di genere italiano come Dario Argento.

Sì, sono stato molto fortunato a essere avviato al mestiere avendo intorno persone di quel valore. Io dico che nella mia vita ho avuto tre angeli. Il primo è stato, ovviamente, mio padre. Il secondo, Pupi Avati, che è stato produttore del mio primo film da regista. Poi, Dario Argento, che è stato produttore del mio film più noto, Demoni. Devo moltissimo a loro tre.

Com’è nato Demoni?

Io ero molto amico di Dario Argento, che aveva cominciato a fare anche il produttore, come per Zombie di George Romero. Un giorno, all’uscita da un cinema, mi disse: «Perché non mi porti qualcosa da leggere? Mi piacerebbe molto produrre un film tuo». In quel periodo io stavo lavorando a una storia in tre episodi. Dario Argento mi bocciò l’idea a parte il secondo episodio, il più breve, un trattamento di una sola pagina. Lo scrivemmo e riscrivemmo a lungo con Dardano Sacchetti, Franco Ferrini e Dario Argento per oltre sei mesi. Alla fine è venuto fuori Demoni. Che è l’orrore al cinema dell’orrore. Il titolo è arrivato per caso, quando nella biblioteca di mio padre trovai in bella vista il romanzo di Fëdor Dostoevskij e il titolo del film.

 

Cosa c’è di diverso oggi in Italia nel mestiere del regista?

È cambiato molto, perché un tempo si facevano trecento film l’anno e adesso quaranta o cinquanta, escludendo la fiction televisiva. Prima c’erano più possibilità. Era non dico un continuo, ma ti proponevano film e tu rispondevi di no, ne sto già facendo un altro. Cercavi di sapere se era una cosa importante, quanto tempo avresti avuto a disposizione e quanti soldi. Forse oggi si fruisce di più cinema, perché hai varie piattaforme su cui vederlo, ma è cambiato tutto dal di dentro.

In questo momento come cinema italiano non siamo più competitivi; ossia le punte, quelli che fanno film che possono andare ai grandi premi, ci sono ancora, però manca una base forte. Perché, come dicevo prima, su trecento film che si facevano all’anno, duecentocinquanta saranno stati brutti, però cinquanta buoni c’erano. Era insieme una questione di quantità e di qualità: producendone tanti c’era più scuola e c’era più modo di emergere.

Il cinema di genere che facevate è stato molto rivalutato negli ultimi anni.

Mio padre era il primo che non leggeva le critiche, ne parlavano solo male a quei tempi, perché se non facevi film sui partigiani non eri un intellettuale. Io ho vissuto tutta questa parabola in famiglia. Mio padre è stato il primo a essere stato rivalutato, anzi, diciamo le cose come stanno, rivalutato in Italia, ma giustamente valutato anche in vita in Francia e negli Stati Uniti. Mi ricordo sempre che, dopo La maschera del demonio, non facevano altro che arrivare produttori americani che gli proponevano di fare film. C’era anche più facilità a quei tempi di fare coproduzioni o lavorare per produzioni straniere. Io stesso ho fatto due o tre progetti che portavo avanti sia in Italia che all’estero e ti posso assicurare che qui bisognava dannarsi.

Poi ammetto anche di non aver visto tutti i film di genere di cui si parla e che si stanno rivalutando oggi. Io, come spettatore, mi sono sempre concentrato sul fantastico. Guardavo i grandi film e poi i film di genere, ma sempre virati sul fantastico.

Si spiega il perché di questo cambio di passo della critica cinematografica?

Forse perché si sono accorti che ci sono film di quell’epoca, anche bistrattati, migliori di quelli che si fanno adesso.

Il tema della rappresentazione della violenza è centrale in tutto questo cinema. È una scelta d’inclinazioni, di realismo o solo dettata dal cosiddetto cinema di genere cui siete legati?

Io posso dire questo: dov’è che la cinematografia italiana, parlo di quella che abbiamo fatto noi fino agli anni Settanta, si poteva differenziare dai film americani? Noi eravamo gli antagonisti del cinema americano, a quei tempi, non c’erano ancora gli orientali e in Europa c’era solo il cinema francese a farci veramente concorrenza. Che cos’è che caratterizzava i nostri film, che non avevano il budget degli americani? Era proprio quello! La possibilità di fare cose più estreme, in tutti i sensi. Noi eravamo pronti a interessare in questa maniera il cinema di tutto il mondo con i nostri film, che erano più poveri, ma anche fatti molto bene. Oggi è più complicato perché gli effetti speciali computerizzati che fanno nei film americani, noi non dico che non siamo buoni a farli, ma è un problema di costi.

 

Alessandra Martinez in Fantaghirò

Tanto cinema oggi  passa dalle serie televisive. Lei ha portato la favola nera sul piccolo schermo all’inizio degli anni Novanta con Fantaghirò.

Fantaghirò fino a qualche anno fa è stata la serie televisiva più vista in Europa, venduta in quarantotto Paesi. Solo di recente sono stato superato da Gomorra. Io ho cominciato a fare televisione quando ancora andavo molto forte al cinema per una semplice ragione: sono sempre stato un amante del fantastico. Per me fantastico comprende horror, thriller, giallo. Io allora feci questo ragionamento: il mio film che aveva fatto più spettatori, Demoni, in Italia aveva contato circa duecentomila biglietti, un numero alto per il cinema di quegli anni. Se in televisione andava in onda qualcosa che faceva due milioni di spettatori era considerato un flop. Allora pensai che, se fossi riuscito a fare qualcosa di valido per il pubblico televisivo, avrei contribuito a diffondere un genere che amo. E da qui è nato Fantaghirò, parlando con dei direttori di Mediaset molto aperti. L’idea era anche fare un film che mettesse davanti allo schermo padri, madri e figli, qualcosa che ancora non era riuscito alla televisione dell’epoca: con Fantaghirò unimmo questi pubblici diversi. Ebbe un successo clamoroso. Dopo la prima serie abbiamo continuato e sono andate in onda quindici ore da me girate di Fantaghirò. Davvero non è poco.

Anche in quella serie non mancano tocchi horror.

Fantaghirò cominciava in un mondo distrutto dove c’erano state pandemie. Il più horror di tutti era il terzo episodio, quello di Tarabas. A Mediaset tutti erano convinti che il successo della serie fosse dovuta ad Alessandra Martinez che, in effetti, fu un’interprete perfetta. Io invece pensavo che fosse stato proprio il genere ad aver attirato il pubblico. Convincendo di questo i dirigenti Mediaset, riuscii a girare anche un’altra serie che si chiamava Desideria e l’anello del drago, dove presi come protagonista Anna Falchi. Guarda caso, anche quella serie andò benissimo. Poi ne ho fatta un’altra che si chiamava Sorellina e il principe del sogno. Insomma mi sono divertito, poi, quando mi sono stancato e non ho più trovato ispirazione né soddisfazione in quelle storie, ho cercato di fare, sempre per la tv, l’avventuroso, con una serie ambientata nei Caraibi, una specie di Pirati dei Caraibi ante litteram, dove c’era Mario Adorf con il pappagallo sulla spalla. Certo, non ho avuto a disposizione i soldi e gli attori di quelli che poi sono stati i film americani con Johnny Depp.

Cosa significa per lei ricevere un premio a una manifestazione come il Ravenna Nightmare Film Fest?

Mi fa un enorme piacere. Questo fa parte della componente edonistica della mia personalità, In più, ora che sono avanti con gli anni, sono particolarmente felice, perché vuol dire che non sono stato dimenticato e, forse, qualche buon film sono riuscito a farlo anch’io.

Poi ho un altro ricordo molto particolare legato alla città di Ravenna e a mio padre, che era una persona molto anticonformista, non solo come regista, ma anche come uomo e come  genitore. Tante volte mi diceva: prendi questo libro, leggilo, invece di andare a scuola. Io, ovviamente, non seguivo il suo consiglio e, anzi, finiva che mi piaceva la scuola proprio perché per me non era un’imposizione. Lui da bambino mi portava spesso in giro per l’Italia per visite culturali e mi ricordo di essere venuto qui a Ravenna a visitare i magnifici mosaici. Ma la città è legata ai miei ricordi per l’unico schiaffo che, a mia memoria, ricevetti da mio padre: quando andammo a visitare la tomba di Dante Alighieri, mi sentii una manata dietro il collo perché non mi ero levato il cappello. Ricordo che ci rimasi molto male e, da allora, per me Dante è sempre stato un po’ ostico.

Il film che ha deciso di presentare nella serata finale del Ravenna Nightmare Film Fest, Ghost Son, come s’inquadra all’interno della sua filmografia?

È un film che nasce dal mio desiderio di cambiare sempre genere. A un certo punto, mi ero stancato di fare continuamente film con belle ragazze inseguite dall’assassino di turno con un coltello in mano, oppure opere come Fantaghirò o film fantastici di un certo tipo. Mi aveva particolarmente impressionato, quando uscì ai suoi tempi, un film, Ghost, di Jerry Zucker.  Una storia horror, ma romantica, una storia d’amore che continua anche dopo la morte, con un fantasma. Ghost, per me, era un horror buonista. Io, invece, volevo fare qualcosa di diverso, volevo raccontare cosa poteva succedere alla fine di quel film. Solo anni dopo ha cominciato a venirmi in mente questa storia: anche qui un grandissimo amore, in cui, a un certo punto, uno dei due, ahimè, muore. Succede che lei rimane sola, ma, non dopo nove mesi dalla morte di lui, ma un po’ dopo, lei rimane incinta. E chi è stato? Forse il fantasma di lui…

Ghost Son è del 2006, poi ha fatto solo Twins nel 2018. Progetti futuri?

Arrivato come sono a una certa età, dopo oltre quarant’anni nel mondo del cinema, ho sentito una certa stanchezza. Fare il regista è un impegno anche fisico notevole. Io poi, come regista, sono il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene, sempre. Quindi, a un certo punto, mi sono detto: vorrei cominciare a vivere la mia vita diversamente e un po’ ho mollato. Tanto più che questa stanchezza ha coinciso con un periodo molto difficile per il cinema, soprattutto italiano. Le piattaforme hanno rilanciato il film, ma non il cinema. Fare un film oggi è sempre più difficile. Io darei una medaglia a quei registi che ci si cimentano. È sempre più un’impresa trovare i soldi che consentono di fare un film, soldi che, però, dovrebbero essere sempre di più, perché ti manca sempre qualcosa e sei costretto a girare in situazioni complicate. Però vado via dal Ravenna Nightmare Film Fest entusiasta di quello che ho visto: tanti giovani registi con molto coraggio, grande inventiva. Un’ondata di proposte, formali, visive, narrative, mi ha investito, divertito, incuriosito, interessato e fatto capire che il cinema non è morto e possiamo forse ricominciare a sperare e osare.

C’è qualche film che l’ha particolarmente impressionata negli ultimi anni parlando di genere horror?

Confesso che dall’inizio della pandemia ho smesso di andare al cinema. Sono tornato a sognare sul grande schermo proprio qui al Ravenna Nightmare Film Fest e di questo non posso che essere grato agli organizzatori e ai registi, che mi hanno fatto un po’ rinascere in questi giorni con i loro film.  Poi, se dovessi sceglierne uno, direi che mi ha davvero impressionato La terra dei figli di Claudio Cupellini, che mi ha fatto pensare che il cinema italiano è ancora vivo.