Il Torino Film Festival, nella sua edizione numero 40, apre i battenti con un film-fiume, intitolato A tale of filipino violence, che riporta in regia, per la seconda volta in un anno dopo la straordinaria esperienza vissuta a Venezia guardando il suo splendido When the waves are gone e nella sezione del Fuori Concorso, il grande filippino Lav Diaz.
Questa sua fatica, cronologicamente venuta prima del titolo citato, è un’opera lunga quasi sette ore che, attraverso la storia di una famiglia di ricchi produttori di canna da zucchero nei primi anni ’70, racconta le torbide vicende umane e politiche di un paese alle prese con le misure vigenti all’epoca della dittatura di Marcos.
Lav Diaz racconta di cosa è capace l’indole umana quanto a violenza ed efferatezza
Nel 1973 le Filippine si trovano a subire l’ascesa del regime dittatoriale e repressivo di Ferdinand Marcos, salito al potere già nella seconda metà degli anni ’60.
Il ricco feudatario Servando Monzon III attende rassegnato la morte dell’anziano e autoritario nonno, a capo del potente clan che gestisce gli ingenti affari di famiglia.
Servando ambisce a divenire il nuovo signore del feudo, ma il suo animo non riesce a rimanere indifferente alla violenza che sta per abbattersi sul paese, e che si esplicita attraverso rappresaglie e uccisioni di tutte le persone simpatizzanti di idee comuniste, o ritenute tali.
Nel contempo la vicenda, lunga quasi sette ore, si dipana tra le tragedie che colpiscono la ricca famiglia di produttori agricoli e la follia violenta che si scatena nel paese segnato da un regime militare oppressivo e sadico, in cui i generali esercitato tutta la loro arroganza e prepotenza omicida a danno del popolo inerme.
A tale of filipino violence – la recensione
Ogni film del grande regista filippino Lav Diaz si trasforma, specie nelle sue lunghe opere sopra le cinque ore, in una vera e propria esperienza di vita.
Camera fissa come regola rigorosa, che talvolta, in rarissime occasioni, prende a muoversi vorticosamente, quasi a far notare allo spettatore il privilegio di una ripresa fissa angolata strategicamente a riprendere una visuale che finisce per scoprire particolari infiniti.
Sonoro sporco e inframmezzato dai rumori della strada, dal verso del pollame onnipresente e dai rumori di una foresta che diviene sempre parte integrante di ognuno dei suoi racconti.
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Canti popolari che escludono ogni tipo di accompagnamento musicale, soffermandosi su voci intonate che si producono in melodie dolcissime, indimenticabili.
Il cinema politico di Lav Diaz sfrutta i tempi lenti e la narrazione sviluppata tramite vicende concatenate, per produrre sferzanti e infuocate apologie contro un regime che ha devastato un paese tra corruzione e regime militare, esercitando la sua posizione suprema ai soli danni del ceto più povero.
A tale of filipino violence si presenta come una sorta di Via col Vento che sostituito, alla Guerra di Secessione, la dittatura di quel Marcos il cui figlio, proprio di recente, è tornato a riproporsi alla guida di un paese che, trascorsi oltre quarant’anni, si ritrova sempre in balia di un potere politico e militare corrotto e degenere.