Anno: 2011
Distribuzione: Bolero Film
Durata: 110′
Genere: Drammatico, Thriller
Nazionalità: USA
Regia: Lynne Ramsay
Le difficoltà di crescere in una famiglia in cui non ci si sente accettati si ripercuotono inevitabilmente nella vita futura di ogni membro. Lo sa bene Kevin, il protagonista del nuovo lavoro di Lynne Ramsay, un film drammatico, duro e violento, un vero pugno nello stomaco. Tratta dal romanzo Dobbiamo parlare di Kevin di Lionel Shriver, la pellicola affronta il problema di una maternità tormentata e di tutte le difficoltà necessarie (?) per crescere (bene) un figlio.
Eva e Franklin sono due giovani innamorati che, senza neanche rendersene conto, si ritrovano ad essere i genitori del piccolo Kevin. Il bambino è piuttosto vivace, piange sempre e sembra accorgersi di essere la causa della depressione di sua madre. Mano a mano che il bambino cresce, il suo rapporto con Eva diviene sempre più conflittuale, costantemente basato sulla sfida di accaparrarsi le attenzioni di Franklin. Quando nasce la piccola Celie, Kevin inizia a soffrire di gelosia e ad isolarsi gradualmente dal mondo che lo circonda, chiuso in un dolore straziante e (auto)distruttivo. Prima di compiere 16 anni, il ragazzo commette l’irreparabile ed Eva, obbligata a convivere con il senso di colpa, comincia a chiedersi se ha mai (davvero) amato suo figlio.
Non era facile trovare il modo giusto per raccontare una storia tanto crudele. Eppure Lynne Ramsay c’è riuscita, trovando il giusto equilibrio tra presente e passato, felicità e dolore, amore e odio. Una bravissima Tilda Swinton riesce a vestire i panni di una donna talmente ossessionata dalla paura di non essere all’altezza di amare il proprio figlio nel modo corretto, da rimanerne imprigionata. Allo stesso modo, il giovane Ezra Miller, tenebroso ed inquietante, riesce a guardare dritto negli occhi i suoi avversari (e, per estensione, noi) e ad inquietarli semplicemente con la violenza dello sguardo. Un odio talmente represso e pericoloso da ricordare la malvagità demoniaca del piccolo Damien de Il presagio.
Se la pellicola fosse stata ambientata tutta al presente e fosse stata lineare, probabilmente, non avrebbe avuto lo stesso impatto sul pubblico: le ellissi, le sfocature, i controcampi e i depistaggi non sono altro che pezzi di un puzzle da costruire. Alla soggettiva acustica dell’avvenimento centrale del film, dunque, non corrisponde la relativa soggettiva visiva, tanto che lo spettatore rimane con il dubbio fino alle fine. La necessità di soffocare il dolore con il rumore, con la sporcizia, con l’alcool, viene svelata sin dai primi fotogrammi, quando una donna completamente svuotata dalla voglia di vivere è ricoperta da un fluido rosso sangue. Il colore della passione e dell’amore, dunque, coincide esattamente con il suo opposto: due facce della stessa medaglia che si completano solo quando sono insieme o, meglio, una nell’altra. Un applauso, dunque, a Lynne Ramsay capace di realizzare una pellicola ansiogena e angosciante che, attraverso l’uso dei colori, dei suoni e dei rumori, riesce a far vivere al pubblico lo stesso incubo claustrofobico dei suoi protagonisti.
Martina Calcabrini